01. Born to run [B. Springsteen]
02. The sky lit up [P.J. Harvey]
03. It's natural to be afraid [Explosions in the sky]
04. One of a kind [Placebo]
05. First wave intact [The Secret Machines]
06. I see you [The Horrors]
07. The fall of math [65daysofstatic]
08. Butterfly and hurricanes [Muse]
09. Aerials [System of a down]
10. Grazie [Marlene Kuntz]
mercoledì 30 luglio 2014
lunedì 28 luglio 2014
Reality - Scene da un matrimonio
Le tradizioni sono un qualcosa di misterioso e squisitamente affascinante.
Questo fine-settimana sono stata al matrimonio di un carissimo amico, un compagno di studi dell'universita', quello che sarebbe stato la mia anima gemella matematica se le nostre strade non si fossero inesorabilmente separate al terzo anno (indirizzi diversi... capita...) ma vabbeh.
Il rito si e' svolto in un paesino campano in provincia di Avellino, i festeggiamenti in un albergo poco distante e giuro, sembrava di essere dentro la scena iniziale dell'ultima fatica di Matteo Garrone: parlando con alcuni degli altri invitati ho scoperto che piu' di qualcuno ha avuto la stessa identica sensazione. E la cosa mi ha inevitabilmente colpita.
La fontana davanti cui fare le foto di famiglia, il duo di "musicisti" (lo so, quelle virgolette sono snob oltre ogni dire, ma proprio non riesco ad evitarle) casinisti che cercano di coinvolgere gli invitati a battere le mani e cantare in coro, un invitato che, tra una portata e l'altra, prende in mano il microfono, si inginocchia davanti alla fidanzata e le propone di sposarlo, lei in lacrime che accetta e tutti si mettono a cantare "Ti amo" di Umberto Tozzi (giuro!, che poi nella mia infinita ignoranza ho appena letto il testo e ho capito quanto fosse fuori luogo), i balli di gruppo latinoamericani, la discoteca dopo il dolce. C'era proprio tutto: mancava solo la star del Grande Fratello e poi avremmo fatto l'en plein.
La sensazione di essere stata dentro un film iper-realista non mi ha abbandonata fino a questa mattina, abbastanza dopo il risveglio, quando ormai gli ultimi residui (piu' o meno alcolici) della festa mi avevano lasciata e ho avuto il tempo di ripensare al tutto con lucidita'.
C'e' una incredibile tenerezza in tutto questo, un modo di esserci, di festeggiarsi, di farsi sentire; una sensazione simile a quella che mi lasciava l'osservare da fuori le sceneggiate napoletane (letteralmente) da finestra a finestra o il tizio che fischiava sul pianerottolo davanti casa a Forcella.
Un paio d'anni fa avevo letto un libro in cui si raccontava Napoli vista dagli occhi di uno straniero che si trovi a viverla: mi aveva impressionato quanto fosse essenzialmente la stessa citta' che vedevo io quando lavoravo li'. Ecco, adesso posso dire che Garrone, da romano, ha raccontato un matrimonio campano usando un linguaggio molto simile a quello che avrei usato io.
Con un'unica differenza cruciale: da dentro e' molto piu' divertente, coinvolgente, emozionante.
Sara' perche' era il mio amico, sara' perche' ero circondata da amici e belle persone, sara' perche' vivere le cose e' sempre piu' bello che vederle da fuori. Garrone usa una lucida freddezza distaccata: io ho ballato con amici ed estranei, riempiendomi il cuore di tutto questo esuberante affetto scomposto che (gia' lo so) mi manchera' da morire una volta raggiunta l'altra parte del mondo.
Questo fine-settimana sono stata al matrimonio di un carissimo amico, un compagno di studi dell'universita', quello che sarebbe stato la mia anima gemella matematica se le nostre strade non si fossero inesorabilmente separate al terzo anno (indirizzi diversi... capita...) ma vabbeh.
Il rito si e' svolto in un paesino campano in provincia di Avellino, i festeggiamenti in un albergo poco distante e giuro, sembrava di essere dentro la scena iniziale dell'ultima fatica di Matteo Garrone: parlando con alcuni degli altri invitati ho scoperto che piu' di qualcuno ha avuto la stessa identica sensazione. E la cosa mi ha inevitabilmente colpita.
La fontana davanti cui fare le foto di famiglia, il duo di "musicisti" (lo so, quelle virgolette sono snob oltre ogni dire, ma proprio non riesco ad evitarle) casinisti che cercano di coinvolgere gli invitati a battere le mani e cantare in coro, un invitato che, tra una portata e l'altra, prende in mano il microfono, si inginocchia davanti alla fidanzata e le propone di sposarlo, lei in lacrime che accetta e tutti si mettono a cantare "Ti amo" di Umberto Tozzi (giuro!, che poi nella mia infinita ignoranza ho appena letto il testo e ho capito quanto fosse fuori luogo), i balli di gruppo latinoamericani, la discoteca dopo il dolce. C'era proprio tutto: mancava solo la star del Grande Fratello e poi avremmo fatto l'en plein.
La sensazione di essere stata dentro un film iper-realista non mi ha abbandonata fino a questa mattina, abbastanza dopo il risveglio, quando ormai gli ultimi residui (piu' o meno alcolici) della festa mi avevano lasciata e ho avuto il tempo di ripensare al tutto con lucidita'.
C'e' una incredibile tenerezza in tutto questo, un modo di esserci, di festeggiarsi, di farsi sentire; una sensazione simile a quella che mi lasciava l'osservare da fuori le sceneggiate napoletane (letteralmente) da finestra a finestra o il tizio che fischiava sul pianerottolo davanti casa a Forcella.
Un paio d'anni fa avevo letto un libro in cui si raccontava Napoli vista dagli occhi di uno straniero che si trovi a viverla: mi aveva impressionato quanto fosse essenzialmente la stessa citta' che vedevo io quando lavoravo li'. Ecco, adesso posso dire che Garrone, da romano, ha raccontato un matrimonio campano usando un linguaggio molto simile a quello che avrei usato io.
Con un'unica differenza cruciale: da dentro e' molto piu' divertente, coinvolgente, emozionante.
Sara' perche' era il mio amico, sara' perche' ero circondata da amici e belle persone, sara' perche' vivere le cose e' sempre piu' bello che vederle da fuori. Garrone usa una lucida freddezza distaccata: io ho ballato con amici ed estranei, riempiendomi il cuore di tutto questo esuberante affetto scomposto che (gia' lo so) mi manchera' da morire una volta raggiunta l'altra parte del mondo.
sabato 12 luglio 2014
Stanley Brinks and The Wave Pictures - Gin [2014]
Sfondo marroncino, il disegno "a pastello" di una specie di bottiglia verde, il nome della band e il titolo dell'album in rosso: il primo in alto a sinistra, in piccolo, il secondo in un "buco" nel disegno della bottiglia in modo da sembrare un'etichetta. Il tutto ha un aspetto estremamente grezzo.
Parte una chitarrina leggera con un ritmo swing, la segue presto una voce sgraziata e un po' nasale, ti rilassi e lasci scorrere; di certo da questo inizio non ti aspetti nulla di tutto quello che verra', ti colpira' in faccia, ti lascera' stordito e ti fara' venire un unico irresistibile desiderio: quello di riascoltare tutto da capo, ancora e ancora.
Play.
Parte una chitarrina leggera con un ritmo swing, la segue presto una voce sgraziata e un po' nasale, ti rilassi e lasci scorrere; di certo da questo inizio non ti aspetti nulla di tutto quello che verra', ti colpira' in faccia, ti lascera' stordito e ti fara' venire un unico irresistibile desiderio: quello di riascoltare tutto da capo, ancora e ancora.
A voler riassumere questo album direi che si tratta di una specie di blues postmoderno: batteria, basso, chitarra per lo piu' leggera (ma quando impazzisce lo fa davvero, come hanno imparato a fare i nuovi jazzisti, quelli che hanno sentito Glenn Branca e i suoi figli prediletti), voce un po' sgradevole ma forse proprio per questo drammaticamente bella.
Registrato live in studio con abbondanti dosi di improvvisazione, dannatamente ipnotico, a tratti dolorosamente malinconico, a tratti rilassato e rilassante, a tratti sereno, a tratti caldo come solo un blues puo' essere, a tratti scherzoso e ironico, rude, istintivo, intenso.
La voce sgraziata di Brinks (gia' André Hermann Düne) ti piglia e ti rivolta come un calzino, gli Wave Pictures lo completano alla perfezione; la chitarra poi, quella, lascia letteralmente senza fiato: colpisce, sferza, accarezza, culla, frusta, scalda, ammalia, dilaga... a seguirla dalla prima all'ultima nota ci si puo' perdere: io mi ci sono persa, ritrovata e persa di nuovo.
Dai bassifondi centramericani alle spiagge hawaiane, dal sole appiccicoso dell'India al grigiofumo di Londra; chiudi gli occhi e ti lasci trasportare per mano da questi pazzi beoni in un viaggio allucinato e surreale.
Sicuramente e' una delle cose migliori che siano arrivate alle mie orecchie quest'anno.
Lista delle tracce:
Registrato live in studio con abbondanti dosi di improvvisazione, dannatamente ipnotico, a tratti dolorosamente malinconico, a tratti rilassato e rilassante, a tratti sereno, a tratti caldo come solo un blues puo' essere, a tratti scherzoso e ironico, rude, istintivo, intenso.
La voce sgraziata di Brinks (gia' André Hermann Düne) ti piglia e ti rivolta come un calzino, gli Wave Pictures lo completano alla perfezione; la chitarra poi, quella, lascia letteralmente senza fiato: colpisce, sferza, accarezza, culla, frusta, scalda, ammalia, dilaga... a seguirla dalla prima all'ultima nota ci si puo' perdere: io mi ci sono persa, ritrovata e persa di nuovo.
Dai bassifondi centramericani alle spiagge hawaiane, dal sole appiccicoso dell'India al grigiofumo di Londra; chiudi gli occhi e ti lasci trasportare per mano da questi pazzi beoni in un viaggio allucinato e surreale.
Sicuramente e' una delle cose migliori che siano arrivate alle mie orecchie quest'anno.
Lista delle tracce:
One minute of darkness
I wanted you
Time for me
Spinola Bay
Blues about Krishna's latest avatar
Max in the elevator
Parking lots
No goodbyes
Not to kiss you
I wanted you
Time for me
Spinola Bay
Blues about Krishna's latest avatar
Max in the elevator
Parking lots
No goodbyes
Not to kiss you
martedì 8 luglio 2014
Baustelle @ Eutropia - Roma
7 luglio 2014
L'ultima volta che sono stata al Villaggio Globale avro' avuto si' e no ventidue anni: sembra passata una vita, infondo e' passata una vita.
Entro, questa volta sono sola. Molti sono in piedi sotto il palco, alcuni seduti su sedie di plastica sistemate un poco dietro: mi guardo intorno e mi rendo conto di essere al di sopra dell'eta' media della gente in piedi, nella media (o forse poco al di sotto) dei pochi seduti.
Bang!
Questa davvero non me l'aspettavo.
Ci sono i miei coetanei, ci sono anche persone che potrebbero avere (davvero!) dieci anni piu' di me, ma sono pochi: la maggior parte del pubblico e' composta da post-adolescenti. Comincio a preoccuparmi.
I Baustelle non si fanno attendere a lungo, entrano e attaccano "Fantasma (titoli di coda)": scelta interessante, come a dire che stanno iniziando a pensare ad altro. Un rapido sguardo e mi accorgo che manca completamente la sezione di archi, che pure si sente e pare perfettamente sovrapponibile a quella registrata sull'album: uno sguardo piu' attento mi permette di identificare il famoso logo della mela su un oggetto che assomiglia allo schermo di un portatile... ecco gli archi!, penso con delusione e scuoto la testa: si', erano proprio belli quegli archi, chi dice niente, pero' un concerto dovrebbe essere un'altra cosa... Mi guardo di nuovo intorno e il pubblico mi appare orribilmente distante da quella che e' mia sensibilita': si', occhei, sono schifosamente snob, me ne vergogno da morire ma che posso farci?
Non sono le premesse giuste per godere un concerto (se e' per questo non lo e' neanche il fatto che la notte precedente avevo dormito poco e non mi sentivo al massimo della forma) ma si fa sempre in tempo a cambiare idea... spero.
Subito dopo "Il futuro", poi "Nessuno" e "Radioattivita'", ancora questi archi inesistenti... Qui pero' confesso di non riuscire veramente a farci caso: sono emotivamente legata a questi brani e delle inevitabili lacrime fanno capolino. E' un attimo, vola via e parte "I provinciali" ("un pezzo vecchissimo, uno dei primi che abbiamo scritto, anche se poi lo abbiamo registrato piu' in la'..." dice Bianconi "parla di quando eravamo nel nostro piccolo paesino e sognavamo di venire a suonare qui a Roma" aggiunge da bravo imbonitore). Le lacrime si sono asciugate e quegli orribili archi finti non si sentono piu': ottimo.
Poi "Cristina" e "Conta' l'inverni", quest'ultima cantata da tutto il pubblico capitolino che sfoggia il suo dialetto con fierezza: ancora quegli archi. Verrebbe da dirglielo a Bianconi e soci, verrebbe voglia di gridare che si', 'sti archi son piaciuti anche a noi, ma io sono venuta a sentire un concerto!
Seguono "La morte (non esiste piu')" e "Monumentale", riparte la malinconia: la serata sta prendendo una brutta piega, inizio a non sentirmi troppo bene e agguanto una sedia di plastica che nel frattempo e' stata abbandonata.
E' il momento di risfoderare vecchi successi, quelli che fanno sempre cantare il pubblico, sicche' parte "La moda del lento" seguita a ruota da "La canzone del parco", con la Bastreghi che canta e il publico che si esalta (solo io mi accorgo che e' un poco sotto tono?). Seguono ancora "La canzone di Alain Delon" e "EN"; ogni tanto mi alzo dalla mia posizione ma subito torno a sedere scuotendo la testa: cosa ci faccio qui?, perche' i montepulcianesi non vogliono suonare nessuno dei loro pezzi migliori?, perche' devono mettere quei maledetti archi finti in modo che siano identici alla versione registrata ma poi la batteria (quella si', suonata dal vivo) si perde alcune delle piccole perle che mi hanno fatto innamorare?
Siamo alle battute finali: "Corvo Joe", "Love Affair", "Gomma": il brano che gli e' venuto meglio fino ad ora.
Pausa.
Meno di cinque minuti per riemergere e spararci "Le rane", "La guerra e' finita" (tirata, tiratissima in modo quasi ridicolo) e "Andarsene cosi'". Apprezzo quest'ultima cosa, e' una bella idea: Bianconi che chiude "Andarsene cosi'" e il gruppo che esce dal palco... doveva essere l'ultima per davvero, sarebbe stato bellissimo, un'idea geniale.
Pausa.
No, non se ne sono andati, e' solo una pausa brevissima. Mi rammarico per la mancata realizzazione dell'idea mentre parte "Charlie fa il surf"; e' un grande momento per Bianconi che si rende conto subito del fatto che tutto il pubblico sta cantando e lui, da vera rockstar, li lascia cantare da soli, li incita "siete meravigliosi, bravissimi, se non sono soddisfazioni queste..." dira' tra il ritornello e la seconda strofa...
Che impressione ne traggo?
Ok, non stavo troppo bene e forse (anzi, verosimilmente) questo ha ampliato le sensazioni negative, ma la conclusione cui sono arrivata e' che i montepulcianesi hanno delle idee bellissime ma troppa paura di seguirle fino in fondo, scrivono alcune canzoni splendide ma poi ai concerti devono nutrire quel pubblico che vuole cantare (perche' non e' che tutti possano cantare "Un romantico a Milano" o "Follonica" o "Il finale" o...), quello che si sentirebbe spaesato se un brano dovesse essere riarrangiato per adattarsi ai musicisti sul palco...
Insomma, si sono rivolti solo a una parte del loro pubblico, verosimilmente quella piu' vasta, sicuramente quella cui non mi sento di appartenere: peccato.
Comunque tutto sommato per quindici euro al Villaggio Globale (meno di dieci minuti a piedi da casa mia) si poteva fare.
E' il momento di risfoderare vecchi successi, quelli che fanno sempre cantare il pubblico, sicche' parte "La moda del lento" seguita a ruota da "La canzone del parco", con la Bastreghi che canta e il publico che si esalta (solo io mi accorgo che e' un poco sotto tono?). Seguono ancora "La canzone di Alain Delon" e "EN"; ogni tanto mi alzo dalla mia posizione ma subito torno a sedere scuotendo la testa: cosa ci faccio qui?, perche' i montepulcianesi non vogliono suonare nessuno dei loro pezzi migliori?, perche' devono mettere quei maledetti archi finti in modo che siano identici alla versione registrata ma poi la batteria (quella si', suonata dal vivo) si perde alcune delle piccole perle che mi hanno fatto innamorare?
Siamo alle battute finali: "Corvo Joe", "Love Affair", "Gomma": il brano che gli e' venuto meglio fino ad ora.
Pausa.
Meno di cinque minuti per riemergere e spararci "Le rane", "La guerra e' finita" (tirata, tiratissima in modo quasi ridicolo) e "Andarsene cosi'". Apprezzo quest'ultima cosa, e' una bella idea: Bianconi che chiude "Andarsene cosi'" e il gruppo che esce dal palco... doveva essere l'ultima per davvero, sarebbe stato bellissimo, un'idea geniale.
Pausa.
No, non se ne sono andati, e' solo una pausa brevissima. Mi rammarico per la mancata realizzazione dell'idea mentre parte "Charlie fa il surf"; e' un grande momento per Bianconi che si rende conto subito del fatto che tutto il pubblico sta cantando e lui, da vera rockstar, li lascia cantare da soli, li incita "siete meravigliosi, bravissimi, se non sono soddisfazioni queste..." dira' tra il ritornello e la seconda strofa...
Che impressione ne traggo?
Ok, non stavo troppo bene e forse (anzi, verosimilmente) questo ha ampliato le sensazioni negative, ma la conclusione cui sono arrivata e' che i montepulcianesi hanno delle idee bellissime ma troppa paura di seguirle fino in fondo, scrivono alcune canzoni splendide ma poi ai concerti devono nutrire quel pubblico che vuole cantare (perche' non e' che tutti possano cantare "Un romantico a Milano" o "Follonica" o "Il finale" o...), quello che si sentirebbe spaesato se un brano dovesse essere riarrangiato per adattarsi ai musicisti sul palco...
Insomma, si sono rivolti solo a una parte del loro pubblico, verosimilmente quella piu' vasta, sicuramente quella cui non mi sento di appartenere: peccato.
Comunque tutto sommato per quindici euro al Villaggio Globale (meno di dieci minuti a piedi da casa mia) si poteva fare.
Bruce Springsteen - Born to Run [1975]
Superare i trent'anni spacciandosi per dei buoni ascoltatori senza aver mai dato una vera chance a Springsteen ha un che di imbarazzante, eppure e' cosi': non avevo mai ascoltato per intero un album del Boss. Inutile stare ora a cercare di capire il perche': piuttosto e' bene correre ai ripari, no?
La copertina e' in bianco e nero, una foto di Springsteen che sorride appoggiato alla schiena di una specie di cowboy nero col sax, la fedelissima telecaster a tracolla, impugnata per il manico: sembra volerla domare. Il suo nome e' scritto in grande, il titolo dell'album e' piu' piccolo, come fosse meno rilevante: verosimilmente sono i desiderata della casa discografica che pubblicizzava l'allora ventiseienne Springsteen come "il nuovo Bob Dylan" e dunque bisognava portare l'attenzione sul nome... col senno di poi possiamo dirlo: la casa discografica non ci aveva capito niente.
Play.
Parte un pianoforte leggero con un'armonica che lo accarezza: la campagna statunitense, quella che abbiamo visto un milione di volte nei film (e per questo ci appare cosi' esotica ma basta vederla una volta dal vivo per capire quanto e' squallida), si apre placida davanti ai nostri occhi. Giusto tre battute, il ritmo accelera immediatamente e subito entra la voce del Boss: e' un treno che si stacca lentamente dalla stazione e poi accelera sempre di piu', sempre di piu', finche' non trova il suo ritmo e bang!, eccolo in corsa sfrenata verso la sua meta.
E tutto l'album non e' che una corsa, una fuga dallo squallore conosciuto verso qualcosa di migliore che potrebbe anche non esistere, ma in sostanza chissenefrega: l'importante e' non accontentarsi mai, non fermarsi finche' non si e' soddisfatti.
Otto storie il cui fil rouge e' questo incontenibile desiderio di vita, di alzare la testa e cercare il meglio, in qualsiasi angolo di mondo si trovi.
Dal punto di vista stilistico-armonico ci trovi dentro Patty Smith, i Guns'n'Roses, il miglior Bon Jovi (quello degli anni ottanta per intenderci) e tutto il folk targato USA. "Gia' sentito" ti verrebbe da dire, ma hey!, questo era il '75 beibi, casomai e' vero il contrario...
E li capisci, li capisci eccome tutti quegli autori che hanno preso a piene mani da qui. Infondo tutti gli autori (con piu' o meno intenzione) prendono a piene mani da chi li ha preceduti, e' normale, e' umano: nella nostra musica ci mettiamo quello che abbiamo dentro, quello che ci ha colpito al cuore in un modo o nell'altro.
Si legge in giro che si tratta di una denuncia al sogno americano: io piuttosto direi che ne e' la rinascita. Gli USA sanno essere terribilmente squallidi, deprimenti, ridicoli, gretti, eppure hanno una gran dote: quella di sapersi rinnovare ogni volta. E Springsteen, raccontando lo squallore di una certa provincia americana, esprimendo nausea nei suoi confronti, decide di alzare la testa e cominciare a correre: questo in un qualche modo e' l'essenza di cio' che il sogno americano rappresenta, almeno nella sua accezione moderna.
Capita che a volte tu abbia ignorato un album per (quasi) trentun anni (vabbeh dai, i primi sette me li abbuonate?) e che poi ti arrivi alle orecchie esattamente nel momento giusto della tua vita, esattamente quando sei mentalmente predisposto perche' ti entri dentro... segnali come questo non possono lasciare indifferenti.
Mai.
Lista delle tracce:
La copertina e' in bianco e nero, una foto di Springsteen che sorride appoggiato alla schiena di una specie di cowboy nero col sax, la fedelissima telecaster a tracolla, impugnata per il manico: sembra volerla domare. Il suo nome e' scritto in grande, il titolo dell'album e' piu' piccolo, come fosse meno rilevante: verosimilmente sono i desiderata della casa discografica che pubblicizzava l'allora ventiseienne Springsteen come "il nuovo Bob Dylan" e dunque bisognava portare l'attenzione sul nome... col senno di poi possiamo dirlo: la casa discografica non ci aveva capito niente.
Play.
Parte un pianoforte leggero con un'armonica che lo accarezza: la campagna statunitense, quella che abbiamo visto un milione di volte nei film (e per questo ci appare cosi' esotica ma basta vederla una volta dal vivo per capire quanto e' squallida), si apre placida davanti ai nostri occhi. Giusto tre battute, il ritmo accelera immediatamente e subito entra la voce del Boss: e' un treno che si stacca lentamente dalla stazione e poi accelera sempre di piu', sempre di piu', finche' non trova il suo ritmo e bang!, eccolo in corsa sfrenata verso la sua meta.
E tutto l'album non e' che una corsa, una fuga dallo squallore conosciuto verso qualcosa di migliore che potrebbe anche non esistere, ma in sostanza chissenefrega: l'importante e' non accontentarsi mai, non fermarsi finche' non si e' soddisfatti.
Otto storie il cui fil rouge e' questo incontenibile desiderio di vita, di alzare la testa e cercare il meglio, in qualsiasi angolo di mondo si trovi.
Dal punto di vista stilistico-armonico ci trovi dentro Patty Smith, i Guns'n'Roses, il miglior Bon Jovi (quello degli anni ottanta per intenderci) e tutto il folk targato USA. "Gia' sentito" ti verrebbe da dire, ma hey!, questo era il '75 beibi, casomai e' vero il contrario...
E li capisci, li capisci eccome tutti quegli autori che hanno preso a piene mani da qui. Infondo tutti gli autori (con piu' o meno intenzione) prendono a piene mani da chi li ha preceduti, e' normale, e' umano: nella nostra musica ci mettiamo quello che abbiamo dentro, quello che ci ha colpito al cuore in un modo o nell'altro.
Si legge in giro che si tratta di una denuncia al sogno americano: io piuttosto direi che ne e' la rinascita. Gli USA sanno essere terribilmente squallidi, deprimenti, ridicoli, gretti, eppure hanno una gran dote: quella di sapersi rinnovare ogni volta. E Springsteen, raccontando lo squallore di una certa provincia americana, esprimendo nausea nei suoi confronti, decide di alzare la testa e cominciare a correre: questo in un qualche modo e' l'essenza di cio' che il sogno americano rappresenta, almeno nella sua accezione moderna.
Capita che a volte tu abbia ignorato un album per (quasi) trentun anni (vabbeh dai, i primi sette me li abbuonate?) e che poi ti arrivi alle orecchie esattamente nel momento giusto della tua vita, esattamente quando sei mentalmente predisposto perche' ti entri dentro... segnali come questo non possono lasciare indifferenti.
Mai.
Lista delle tracce:
Thunder road
Tenth avenue freeze-out
Night
Backstreets
Born to run
She's the one
Meeting across the river
Jungleland
Tenth avenue freeze-out
Night
Backstreets
Born to run
She's the one
Meeting across the river
Jungleland
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