26 settembre 2015
Ormai si e' capito come la citta' (anzi, la Citta') abbia da offrire occasioni cui la provincia non puo' certo aspirare: il gigante fuori tempo massimo passa per la provincia, gli artisti moderni no. E io, per quanto mi possa intenerire nel vedere lo zappatore coatto che e' stato il mio mito quando avevo nove anni, sono innegabilmente un animale intellettualoide da citta', anzi da Citta': del resto la verita' e' che provengo dalla prima Citta' (in senso "occidental-moderno") della storia.
Il biglietto per i Quebecchesi l'ho comprato a meta' luglio, non appena ho saputo che sarebbero passati da queste parti, senza pensarci un secondo; non conosco nessuno potenzialmente interessabile a un evento simile, ovvero conosco piu' di qualcuno che verrebbe volentieri, ma sono tutti dal lato sbagliato dell'Atlantico, percio' vado da sola.
Se in alcune (molte?, la maggior parte?) occasioni e' bene essere in pista per godere lo spettacolo al meglio, questa volta le poltroncine di velluto non erano una scelta economica ma anzi, mi parevano decisamente piu' adeguate, percio' avevo comprato un posto a sedere in alto: col senno di poi devo dire che la scelta si e' rivelata assolutamente corretta.
Arrivo dunque, sono in alto, in ultima fila, abbastanza centrale: alla mia destra il corridoio, alla mia sinistra una coppia che andra' via prima della fine (!!!), davanti a me nessuno e posso stendere le gambe sul bracciolo destro della poltroncina davanti per godere comodamente la Musica.
Il gruppo spalla, gli Xylouris White non si fa attendere a lungo; sono un duo decisamente interessante, batteria e liuto, parzialmente strumentali anche se di tanto in tanto il liutista canta in una lingua a me completamente ignota, dal suono mediterraneo (scopriro' poi che e' greco). Gradevolissimi, intensi, avvolgenti: si', hanno catturato la mia attenzione e sono pronta a seguire la mia tradizione personale e comprare il loro CD all'uscita. Sulle ultime due tracce si avvalgono anche di un contrabbassista che da un gran corpo ai suoni, eppure devo dire che i brani a due mi avevano colpita di piu'. Vabbeh.
Non sono l'unica ad averli apprezzati: escono tra gli applausi del colto pubblico cittadino. A fine concerto, uscendo, mi fermero' al banco per comprare il suddetto CD, ma purtroppo (anzi, per loro fortuna) li hanno gia' venduti tutti: ci resto male ma stringo loro la mano complimentandomi e mi faccio dare un biglietto da visita, riducendomi poi ad ordinare l'album via amazon questa mattina.
Ne riparleremo.
Salgono i tecnici sul palco e in molti intorno a me si alzano per un'altra birra; il rapporto con l'alcol di questa gente mi lascia sempre un filo di nostalgia di casa: fino a diciannove anni non possono toccarlo, e' illegale, dunque dopo ne abusano...
Il palco e' allestito in un modo che non avevo mai visto prima, gli amplificatori sono disposti a semicerchio e le due sedie piu' vicine al pubblico sono addirittura voltate in modo che la persona che si siedera' sara' costretta a rivolgerci le spalle: sembra una specie di caldo cerchio accogliente di amici che hanno voglia di parlare fra loro mentre noi assisteremo stupefatti al loro dialogo.
Tutti dicono che Montreal e' la citta' piu' "europea" del nordamerica ma quando sono stata li' due anni fa non avevo avuto questa impressione: oggi, davanti a questo palco cosi' allestito, mi rendo conto che forse quel che intendono e' qualcosa di culturale che esprimono malamente col termine "europeo", ma bisogna viverci per sentirlo e coglierlo.
Mentre i tecnici sono ancora sul palco la musica di sottofondo si scioglie in un rumore elettronico cupo e persistente, come quello di quando si lascia un basso distorto appoggiato all'amplificatore, e continua anche dopo che i tecnici sono usciti e la sala s'e' fatta buia: con questo sottofondo entra in scena Sophie Trudeau camminando lentissimamente, subito seguita altrettanto lentamente da Thierry Amar che prende il contrabbasso.
Attaccano a sfregare delicatamente i rispettivi strumenti, i suoni infinitamente lunghi di "Hope Drone" cominciano a prendere corpo, avvolti ancora da quel rumore elettronico che non sembra aver intenzione di scomparire; sullo schermo alle loro spalle cominciano a proiettarsi forme grigie come un vecchissimo video in fase di sincronizzazione. I secondi diventano minuti mentre il resto della band prende posto nel semicerchio: Moya, Menuk, Pezzente, Amar, Trudeau e Bryant (gia' in ginocchio sui pedali), con Herzog e Girt in linea con gli amplificatori.
Non lo avevo mai sentito se non via youtube, sapevo pero' che ci aprono spesso i concerti e oggi ne capisco il motivo: la suite non esplode mai veramente, resta li' sul punto di farlo, eppure a suo modo riesce a far tremare tutto, mentre sugli schermi compare a tratti la scritta "Hope", distorta anch'essa dal rumore.
Segue "Gathering Storm" e le immagini sul fondo cominciano a prendere corpo: e' natura grigia, sferzata dal vento e dai suoni dei Quebecchesi. Mi torna in mente quella volta in cui i Marlene Kuntz avevano improvvisato sui video di Painlevé, ma qui non c'e' improvvisazione, questo e' stato pensato per essere cosi' fin dall'inizio, le immagini sono simili a quelle che si vedono nei video dei loro concerti sul tubo, con la differenza che a esserci e' tutta un'altra cosa.
Poi suonano tutto di fila "Asunder, Sweet and Other Distress", album cui sono particolarmente legata anche se qui non avevo avuto voglia di scriverne.
Spiego.
L'ho ricevuto in anticipo sul resto del mondo (vivere in Canada avra' pur qualche vantaggio, no?) e l'ho ascoltato per la prima volta in bici in riva al lago, solo che non era fine-maggio come con Sufjan Stevens, ma fine-marzo, forse inizio aprile: il disgelo era cominciato nel senso che le strade non erano fisicamente ghiacciate e si poteva prendere in considerazione l'idea di muoversi in bici, ma c'era ancora neve ovunque, ancora nevicava abbastanza spesso, il lago era ancora quasi completamente ghiacciato.
Era un sabato stanco in una fase di silenzio e freddo, l'album era arrivato il giorno prima, avevo cominciato a tirar calci da forse due settimane ed era ancora presto perche' fosse realmente appagante e il grigio mi opprimeva, sicche' avevo inforcato la bici ed ero andata al lago col mio fedele cuffione; faceva un freddo porco, indossavo due paia di pantaloni, due maglioni sotto la giacca, sciarpone e cappello di lana nonche' due paia di guanti, pedalavo con tutta la forza che avevo in corpo e nonostante gli strati mi si ghiacciavano le dita di mani e piedi. E li', guardando il lago, gli animali che vi camminavano sopra dando la sensazione che se io avessi voluto saltare su quello strato di ghiaccio non si sarebbe comunque rotto, immersa in quel grigio assoluto, avvolta completamente dalla musica dei GY!BE, ho capito.
Ho capito da dove viene la loro musica (dicono che a Monteral faccia piu' freddo e piu' a lungo), ho capito cosa davvero li differenzia dai Texani, ho capito che certi suoni parlano delle nervature del ghiaccio (gia', anche lui lo aveva gia' detto: fate caso alle armoniche che si sentono esattamente in quella strofa...), del cielo plumbeo carico di neve, del vento gelido e pesante del nord.
Ma soprattutto ho capito che non potevo lasciarmi abbattere, che ero piu' forte del cupo inverno canadese, e in un qualche modo ha fatto parte del processo di rinascita dopo l'inverno.
Sentire quest'album suonato dal vivo, cosi', in tutta la sua potenza, con quelle immagini di grigio-inverno che scorrono sullo sfondo mi ha colpita profondamente, facendomi venire brividi e pelle d'oca: la "parola con la w" (a settembre qui si dice cosi') non si puo' pronunciare, ma e' alle porte e so che questo pensiero ha attraversato la testa di tutti i presenti.
Poi e' la volta di "Moya" e il pubblico scalpita gia' ai primi suoni, qualcuno dal basso grida "thank you" e io mi associo mentalmente: che suite incredibile, quanta dolcezza, quanta meraviglia!
Segue un brano che non conosco, forse uno nuovo, che spero' pero' di poter riascoltare presto.
Chiudono con "The sad mafioso" e anche qui il pubblico si fa sentire subito con calorosi applausi: l'ascolto di un album dei GY!BE e' mentalmente impegnativo ma il bombardamento sonoro, oserei dire 'fisico', che si riceve ad essere li' lo e' ancora di piu' e l'energia emanata e' incredibile.
Capisco che non ci sara' un encore: come potrebbe del resto?, suonano da piu' di due ore, saranno distrutti, oltre al fatto che fare un encore di venti minuti avrebbe del ridicolo.
Infatti sulla lunghissima coda di "The sad mafioso" uno ad uno escono dal palco, lasciando gli amplificatori a vibrare di feedback infinito. Poi, all'improvviso, il silenzio.
Luci.
La 403 mi parla in silenzio lungo il viaggio di ritorno.