lunedì 31 agosto 2015

Greenbelt Harvest Picnic @ Christie Lake Conservation Area - Dundas

29 agosto 2015

L'estate Canadese e' un'esplosione continua che non da tregua: un brulicare di festival, fiere, concerti all'aperto, gioia, cibo e alcol, natura immensa e bellissima. Se l'inverno ti prosciuga le forze con il suo silenzio e i volti spenti dei passanti, l'estate e' vita vissuta fino all'ultima goccia, per immagazzinare energie sufficienti a sopravvivere al prossimo inverno.

L'evento del giorno e' una tradizione recente (anche su scala canadese) che viene organizzato nella Greenbelt dai contadini locali; ci sono gli stand degli artigiani locali, quelli dei contadini e quelli immancabili di cibo-spazzatura, ma non in quantita' abissale. E ci sono due palchi, uno principale e un altro, piccolo e male attrezzato, che serve esclusivamente come elemento di distrazione mentre i tecnici spogliano e rivestono il main stage.

Sono con un amico, una sua amica e la figlia (di forse sei anni, forse meno) dell'amica; siamo venuti a vedere Gordon Lightfoot, e mi si perdoni l'ignoranza ma non l'avevo mai sentito nominare prima: per i miei compagni d'avventure ovviamente e' una leggenda e mi diranno piu' volte che lo stesso Bob Dylan lo considera il suo cantautore preferito. Non ho il coraggio di dire ad alta voce che Bob Dylan e il folk-nordamericano in generale mi annoiano come pochi.

Arriviamo a meta' pomeriggio anche se qui si e' iniziato a suonare gia' da varie ore, parcheggiamo, mamma e figlia vanno a pescare e le ritroveremo piu' tardi, io e il mio amico facciamo un pigrissimo giro per gli stand e in riva a un minuscolo laghetto e poi ci andiamo a sedere sull'erba a gustarci la musica. Sui palchi si susseguono vari gruppi di interesse variabile tra lo zero e l'epsilon ma la situazione complessiva e' talmente piacevole che va bene cosi'.

Ad un certo punto sul palco principale sale un duo gradevole, due chitarre, una acustica e una elettrica, due voci ben amalgamate; sul momento non propongono niente di diverso da quanto li ha preceduti, ma nel finale dell'ultimo brano partono con una coda acustico-noise da brivido ed e' magia. Mi alzo e vado alla ricerca della scaletta della giornata: Gregory Alan Isakov e' il nome che cerco. Hanno fatto troppe cose perche' il tubo mi permetta di ritrovare il brano in questione... peccato.

Facciamo una pausa-merenda allo stand eritreo/etiope, mangiando un curioso piatto a base di mais e carne al sugo piccante accompagnato da due samosa: sembra piu' che altro un misto messicano-indiano, ma e' abbastanza buono da farci dimenticare l'assurdita' della cosa.

Dopo un po' sul palco piccolo sale un gruppo di nativi americani con tanto di copricapi pennuti e ci avviciniamo per sentire meglio: il mio amico in passato ha vissuto per un periodo insieme ai nativi americani e conosce la loro cultura in modo ovviamente piu' profondo di chiunque io abbia mai incontrato prima. Mi dice una cosa come "This song may have thousands of years" e quel che piu' mi colpisce in questa frase e' l'utilizzo della parola "song", canzone. Non sono versi a caso, sono parole nella loro lingua; questa canzoni parlano della terra, del Grande Spirito, delle foreste, dei laghi, di una ragazza da sposare. Sono canzoni vere e proprie. Antichissime.
E penso che da quell'altro lato dell'Atlantico, quello da dove vengo io, forse milleni fa si cantavano lo stesso tipo di canzoni, con strumenti altrettanto rudimentali quanto non del tutto assenti. Lo strumento era la voce, il tempo era tenuto con le mani su rozzi tamburi, ma si cantava gia' allora, chissa', magari addirittura nelle caverne. L'uomo canta perche' ha la necessita' intima di dare corpo e anima a quei pensieri che non sa esprimere: canta di cio' che conosce, perche' non si puo' cantare d'altro, ma canta e si libera.
Eppure da quell'altro lato dell'Atlantico c'e' stata un'evoluzione che qui e' mancata completamente.
Il Mediterraneo ha permesso scambi rapidi, e la' dove c'e' lo scambio di idee c'e' crescita, e gli strumenti evolvono e con essi evolve la musica. Il desiderio di comunicazione rimane lo stesso: sono i mezzi e i linguaggi a cambiare. E' cosi' da sempre, e' nella natura umana.
Questo popolo, i nativi americani, i conquistati e distrutti dalla follia inglese (gli spagnoli e i portoghesi in un qualche modo si sono integrati, gli inglesi mai: ovunque sono andati hanno fatto carne di porco di tutto cio' a loro preesistente, specie in nord America) ovviamente hanno chiuso a riccio la loro societa' e ne hanno preservate immutate abitudini e le canzoni.
Questo pensiero mi colpisce profondamente.

Subito dopo i nativi americani sul palco principale sale Gordon Lightfoot e qui non c'e' neanche da chiedere: ci avviciniamo senza indugio.
E' un uomo vecchissimo, con la voce devastata dagli anni (mi dicono, e il mio pensiero ovviamente vola a quella volta, un anno fa, quando ho visto i dinosauri ballare) e fa niente di piu' e niente di meno di quel che mi aspettavo. Un paio di brani, devo dirlo, mi convincono molto per stile e scelte armoniche, il resto purtroppo rispecchia tremendamente le aspettative, ma sorrido ai miei amici mentendo spudoratamente.
Alcuni brani mi vengono presentati come "successi intramontabili"; addirittura sara' lo stesso Lightfoot a presentare con infinito orgoglio un brano (l'ultimo) come uno che e' stato registrato anche da "Elvis, The Mamas and the Papas, Bob Dylan and others...". Chiedo scusa, siamo troppo lontani dalla mia area di competenza perche' io possa riconoscere il brano.
E' rimasto sul palco un'ora abbondante, quelli che lo avevano preceduto erano tutti da mezz'ora, ma qui si sta parlando di una star, un vero caposaldo per questa gente. Certo, troppo vecchio e troppo poco modaiolo per essere considerato l'artista principale della giornata (ruolo che sara' ricoperto da una band locale "da radio" assolutamente insignificante) ma comunque il livello e' di gran lunga superiore rispetto a quanto sentito fino a questo momento... e ahime' anche a quanto seguira'.

Quando Gordon Lightfoot finisce di suonare ci facciamo un giro alla ricerca di cibo: plachiamo lo stomaco con una pizza margherita cotta in un vero forno a legna (e che quindi sa quasi di pizza margherita, sottile come vuole mamma-Roma) e lo chiudiamo definitivamente con un panino assassino che porta l'inquietante nome di "Fatty meat" e contiene salsiccia "italiana", formaggi (si noti il plurale) e un numero imprecisato di salse.
Queste cose stanno accadendo decisamente troppo spesso, ma come si fa a non provare?

Rimaniamo in giro ancora un po' ma poi l'ultima band e' cosi' tremenda che anche i miei amici decidono che e' ora di rientrare.
In macchina la bimba dice di non avere sonno e ovviamente si addormenta dopo trenta metri. Sorrido nel vedere la sua testa ciondolante.

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