domenica 24 luglio 2016

Wonhyo



"Tutto cio' che crediamo di vedere e' colorato dalle percezioni che abbiamo appreso dagli altri. Quanto impariamo a guardare davvero il mondo intorno a noi, senza questi percezioni apprese, riconosciamo che tutto e' Uno, e non ci sono distinzioni o differenze tra le persone o gli oggetti. Tutto procede dall'Unica Mente, e tutto cio' che un individuo prova non e' che una parte di qull'Unica Mente.

Le persone si sentono cosi' tanto a loro agio con le delusioni dei loro sogni che non hanno voglia di lasciarle andare, e vi si aggrappano con forza quando sono minacciate.
Ma l'universo non ha "buio" ne' "luce", ne' "vita" e ne' "morte": ha solo se' stesso, cosi' com'e', senza etichette.

Le persone tendono ad etichettare le cose, e non appena lo fanno sostengono di aver capito cio' che quelle cose sono e cosa significano, ma le cose che si etichettano non sono mai cio' che si pensa che siano.
Uno puo' pensare di aver ragione nelle proprie etichette, poi magari trova anche altre persone che sono d'accordo con tali etichette e la conseguente visione del mondo: cio' pero' non significa che quelle etichette sono corrette.

Quando una persona si e' risvegliata dalla delusione e dall'auto-soddisfazione, allora puo' riconoscere l'Unica Mente e il fatto che tutte le cose sono una.
Gli esseri umani sono qui, in questo mondo, per raggiungere questo risultato, perche' e' solo qui che si devono affrontare cosi' tante tentazioni da rischiare di essere condotti sulla strada sbagliata, e cosi' la lucentezza dell'illuminazione brilla ancor piu' chiaramente quando e' riconosciuta."

martedì 12 luglio 2016

Swans @ Danforth Music Hall - Toronto

11 luglio 2016

Vivere in nordamerica, bisogna ammetterlo, comporta alcuni indiscutibili vantaggi; vivere a poche miglia dalla citta' (anzi, dalla Citta'), coccola il lato musicofilo dell'individuo che voglia approfittarne.

Toronto d'estate e' la felicita', un'esplosione di luce, di colore, di calore e di sorrisi cosi' intensa da farti quasi dimenticare che l'inverno sia mai esistito; non escludo che la prossimita' dal congedo renda tutto ancora piu' bello ai miei occhi di quanto non sia, ma che importa?, godiamolo finche' ce n'e'.

Al Danforth ci sono gia' stata, a maggio e a settembre dell'anno scorso, in giornate troppo grigie e fredde (si', a maggio e a settembre!) perche' venisse voglia di stare all'aria aperta: oggi e' diverso, oggi e' luglio, fanno trenta gradi e c'e' un sole bellissimo che quasi ti implora di passeggiare per la colorata Greek-Town, dove anche i nomi delle strade vengono riportati sia in caratteri latini che in quelli ellenici. Ah quanto e' bella la Citta'...

Sul biglietto c'e' scritto 7pm e qui sono piuttosto puntuali, ma e' pur sempre un concerto rock: mi metto in coda alle sette e cinque (dio, mi sto forse canadesizzando?). Ho accesso al "main floor", volevo, dovevo, stare in bocca a Mr. Gira: per troppi anni ho sperato di poterlo vedere dal vivo.
Entro dunque, e la sala e' semideserta, tanto che riesco a guadagnare senza il minimo sforzo un posto in prima fila, con i gomiti letteralmente poggiati sul palco, decentrata di forse venti centimetri.

Al centro del palco c'e' uno sgabello con accanto due archetti da violoncello; appena alle spalle dello sgabello un muro di sei (!) amplificatori, con una piccola apertura delle dimensioni esatte della gran cassa della batteria: il resto dello strumento e' nascosto dagli impianti, giusto tom e piatti sono chiaramente distinguibili. Accanto alla fila di amplificatori, sulla sinistra rispetto alla mia visuale, una tastiera a due piani e un'altro ampli alle sue spalle; ancora piu' a sinistra altri due ampli con davanti una chitarra (che non sara' sfiorata per tutto lo spettacolo) e una postazione con sgabello davanti a uno strumento che non riesco a catalogare.
Di sottofondo una musica da rito celtico ci introduce al giusto stato d'animo.

Dopo un po' entra una donna dai lineamenti orientali, credo coreana; indossa una camicia di seta gialla e si muove con decisione. Stende un foulard sullo sgabello, vi poggia accanto, sul pavimento, un tablet e poi va ad aprire una custodia da cui estrae un violoncello. Non un sorriso, non un cenno, niente. Si sistema, imbraccia un archetto, fa partire un cronometro sul tablet e sfiora le corde del violoncello. Ci ripensa "scusate, faro' dei rumori" dice senza la minima inflessione mentre sistema i circuiti dell'amplificazione dello strumento; siamo tutti in solenne attesa.
Chiude gli occhi e attacca.
Magia.
Difficile da descrivere la sua musica/non-musica, il suo percuotere e sfiorare, il noise estremo, la dissonanza totale, la grazia la rabbia: la guardo rapita. Le sue dita si muovono sullo strumento con chirurgica precisione, la bocca e' imbronciata, quasi infastidita, tanto che per certi versi mi fa pensare a un certo pianista geniale, musicalmente emozionale eppure immensamente glaciale col suo pubblico adorante.
Dopo circa dieci-quindici minuti si ferma e si prende un applauso scrosciante dal pubblico Cittadino che era rimasto in totale paralisi fino a quel momento; la donna si alza dallo sgabello, fa due o tre passi e va a sovrastare un ragazzo, circa cinque-sei persone da dove sono io: "Crederesti che non sento se bisbigli eh?" lo fulmina con tono severo e torna a sedere, se possibile con l'aria ancor piu' imbronciata. Chissa' cosa ha sentito con quelle orecchie ultrasoniche.
Ricomincia.
Lo strumento, sotto le sue dita, grida e si dimena: noi tutti siamo di nuovo a bocca aperta e sguardo estatico. Certe cose le ho sentite fare da chitarristi con chili di overdrive, come puo' riuscirci lei?, dalla mia posizione privilegiata vedo addirittura spruzzi di polvere di corda corrosa dalla foga.
Va avanti per altri dieci-quindici minuti e si ferma di nuovo, e nonappena stacca l'archetto dalle corde parte il nostro applauso entusiasta. Fa per alzarsi, si china giusto a guardare il timer sul tablet e decide di risedersi: evidentemente ha ancora tempo a disposizione e, per nostra fortuna, lo usa tutto.
Mi appunto mentalmente di comprare il suo album all'uscita ma purtroppo non lo trovero': dovro' rimandare a dopo il trasloco perche' adesso ho paura che non faccia in tempo... peccato.
Finito il terzo brano si alza definitivamente, china il capo in segno di ringraziamento e senza dire una parola mette via violoncello, foulard, tablet ed esce.
Senza un sorriso.

Buio.

Ora la musica di sottofondo e' un country sbilenco, l'altra anima di Gira che emerge.
Mi guardo intorno e mi accorgo che tutti indossano tappi per le orecchie: cuccioli!, penso.
Nel buio entra Westberg ad accordare la sua chitarra; lo vedo, lo riconosco e mi impressiona la sua magrezza scheletrica. Uno alla volta entrano anche gli altri, Gira incluso, a sistemare i rispettivi strumenti: e' la prima volta che mi capita una cosa del genere, i roadie esistono apposta, no?, la sensazione che mi rimane addosso e' quella che nessuno puo' toccare uno strumento degli Swans.

Ri-buio.

Alle nove in punto entrano i sei: Westberger laggiu' alla mia destra, Pravdica accanto, Puleo dietro le pelli, un inatteso ricciolone alle tastiere (che fine ha fatto Thor Harris?), Hahn alla mia sinistra davanti allo strumento non identificato mastica un chewing-gum, Gira al centro, spalle al pubblico.
Hahn indossa dei plettri da dita e comincia ad arpeggiare dolcemente e freneticamente, il ricciolone lo segue, poi, in crescendo gli altri; e' un brano strumentale che contiene buona parte di "No words/no thoughts" e il resto e' lasciato all'improvvisazione. Col crescendo comincio a sentire le vibrazioni acustiche sul corpo.

Ora.
Una (io) pensa di essere preparato.
Sedici anni di concerti noise-rock non sono certo bruscolini.
Ho assistito ad "Hallucination City" di Glenn Branca all'Auditorium e non l'ho mai dimenticato (oh come s'era pischelli...)
Ho perso il conto delle volte in cui la parte delle api mi e' stata sonicamente sparata addosso mentre ero in primissima fila, letteralmente davanti all'ampli di Tesio.
Il mio lettore mp3 a volte mi chiede se sono sicura di quello che sto facendo con la levetta del volume e prova a convincermi di salvare i timpani finche' sono giovane.
Ma niente, neanche "Hallucination City" poteva prepararmi a questa sera.
I nove amplificatori sembrano tutti puntare contro di me, le spie sul fronte del palco sono talmente vicine che sento anche loro, i miei gomiti vibrano, la sala vibra... guardo i musicisti e mi accorgo che tutti loro indossano tappi per le orecchie... beh quasi tutti: Gira no, le sue deve averle bruciate ai tempi di "Children of God".
Cedo.
Umilmente cedo e appoggio delicatamente gli indici sulle orecchie: per tutta la durata del concerto le mie dita aumenteranno o ridurranno la pressione a seconda del volume, perche' amo troppo la musica per rischiare la sordita'. Come questo pensiero mi attraversa la mente capisco che e' avvenuta in me una trasformazione importante negli ultimi due anni.
Sorrido e torno alla musica.

Sul cantato Gira allarga le braccia come un moderno Mose' davanti al Mar Rosso: invece di separare le acque pero', il nostro Profeta alza e abbassa il volume dei suoi compagni che lo guardano costantemente. Qualcosa nella piega delle labbra, nel modo in cui le arriccia, mi fa pensare a un collega francese che non c'entra assolutamente niente... va a capire perche'.

Alla fine Gira saluta: "grazie perche' accogliete e ricambiate il nostro amore", dice e
attaccano "Screen Shot", col suo ritmo ipnotico e allucinato che sconquassa le membra: nessun dolore, nessun adesso, nessun tempo, nessun qui, guidati dal nostro guru viviamo questo momento come se non ci fosse ne' un prima ne' un dopo.

"Grazie ancora", dice Gira alla fine del brano "se ci amate fateci un bell'applauso".
Urla e applausi.
"Se vi e' piaciuta la prestazione di Okkyung Lee al violoncello fatele sentire un bell'applauso"
Applauso scrosciante, urla di approvazione.
Gira sorride.

Seguono le preghiere: "The cloud of forgetting" prima e "The cloud of unknowing" poi.
Se della prima mi colpisce l'aspetto quasi etereo, la seconda capisco che e' una sinfonia su un atto sessuale: i preliminari, il su e giu', su e giu', che non vuole farti arrivare subito all'orgasmo, ti porta vicino e si ritrae, prolunga ancora e ancora e ancora finche' non arriva l'agognata esplosione che ti pervade, una volta, due, tre, e poi musicisti e pubblico si accasciano esausti, l'uno contro l'altro, ad accarezzarsi con un sorriso stanco.
Gira ringrazia e chiede scusa per la voce (?) "sapete, ieri sera ho bevuto un po' troppo" prova a giustificarsi.
Seguono senza soluzione di continuita' "Some things we do" e "The world looks black".
Guardo ammirata.
Westberger, secco secco, sembra possa rimanerci da un momento all'altro, i giovani Pravdica e Puleo, quando non guardano Gira, si scambiano sguardi d'intesa, il ricciolone gode per l'appunto come un riccio, Hahn sembra spiritato: ogni tanto si massaggia l'avambraccio, segno che lo strumento non identificato lo sta impegnando parecchio. Lo guardo con occhi meravigliati e lui se ne accorge, mi sorride, mi fa l'occhiolino e sillaba un ringraziamento in risposta al mio "uau!".
Chiudono con una "The glowing man" pazzesca.
Non resisto piu'.
In barba al volume stacco completamente le mani dalle orecchie, caccio un foglio e una penna, scrivo "che strumento e' quello?" e lascio scivolare il foglio ai piedi di Hahn che lo legge, mi sorride e mi lascia capire che rispondera'.
L'uomo splendente e' un uomo in cammino: l'esplosione finale ci lascia inebetiti e felici.
Sullo scroscio del pubblico i musicisti raggiungono il fronte del palco e si inchinano tre volte, a toccare il pavimento con le punte delle dita: il bassista addirittura si inginocchia (dolori alla schiena?, eppure e' visibilmente il piu' giovane).
Nell'uscire Hahn si gira verso di me, indica lo strumento, segna un due con la mano come a dire "dammi due minuti" (pausa pipi'?), poi ci ripensa e lo cambia in un tre: alzo i pollici per ringraziarlo.

I ragazzi accanto a me hanno assistito alla scena, letto il mio biglietto e adesso sono curiosi quanto me. Hahn riesce, prende lo strumento dal supporto e me lo avvicina. "E' una specie di chitarra hawaiana" dice. "Vedi?, ti metti qui con le dita e fai casino... beh, in teoria serve per suonare una musica tipo 'Sponge Bob', pero' io non lo so suonare: ammiro molto quelli che lo sanno suonare ma io non ci sono capace!, io sono sicuramente il piu' rumoroso: il piu' rumoroso suonatore ignorante di questo strumento!". "Beh, era davvero bellissimo, complimenti!" dico di rimando, pensandolo sinceramente. Lo ringrazio, gli stringo la mano ed esco.

Alla fermata del pullman verso Hamilton un ragazzo mi si avvicina. "Tutte le persone fighe al concerto degli Swans tornano a Hamilton" dice. Ci metto qualche istante, poi riconosco uno di quelli che si erano fermati a sentire la spiegazione di Hahn.
Chiacchieriamo per tutto il viaggio di ritorno: a quanto pare anche a Hamilton esistono persone dotate di gusto musicale... peccato averlo scoperto solo oggi.

domenica 10 luglio 2016

Swans - The glowing man [2016]

Sfondo marrone chiaro che mi ricorda il sughero e anzi, tutto il contenitore e' di un cartone poroso al tatto; al centro uno strano simbolo runico rosso, bordato in oro, lascia una leggera ombra dando l'effetto di essere lievemente sollevato rispetto al resto: e' un braccio, ma a meta' del bicipite si diramano due appenici non meglio identificabili. Il retro e' assolutamente identico, salvo che al posto del "braccio" c'e' una gamba.

Play.

Ma quanto e' bello l'ultimo disco degli Swans?
Ti seduce, ti prende e ti rivolta, ti lascia paralizzato.

L'attacco e' di quelli che preannunciano grandi cose, con un'inizio di suoni lunghi e sognanti, seguito dall'ingresso una chitarra acustica ingannevolmente morbida, che ci introduce in crescendo, lentamente ma inesorabilmente, a quel senso allucinazione da droga pesante (non lo so per davvero l'effetto che fa, ma l'immagino cosi') che non ci abbandonera' per tutta la durata del doppio album.
E di crescendo in crescendo, brano dopo brano, si rimane avvinghiati a questi centodiciotto minuti e ventisette secondi di Messa Nera: no, non sono canzoni, sono incantesimi oscuri e dannati.

Ogni nota, ogni fraseggio, ogni emozione: tutto e' prolungato fino allo spasmo perche' noi si possa assaporarne fino in fondo la perversione.
Il tempo si dilata, lo stordimento ci assale lasciandoci in uno stato catatonico.

L'alienazione metropolitana di Mr. Gira ci avvolge senza scampo, ed e' un attimo evocare alla mente le immagini della oscura e piovosa San Francisco di Ridley Scott (assai diversa da quella che Philip K. Dick mi aveva fatto immaginare) che piu' che San Francisco sembra New York; e del resto Mr. Gira tutto sembra, meno che californiano.
Persino in questi giorni di luce immensa, sole, afa estiva e sudore che ti cola dalla fronte (bello il clima continentale...) la musica degli Swans raggela il sangue nelle vene e fa si' che non ci si dimentichi della pesantezza dell'inverno.

Viene qui riesumato il testo di "The world looks red" ma Gira ne stravolge completamente la musica, apponendovi quella firma che trentatre' anni fa aveva lasciato in favore dei giovani sonici: in questa nuova veste estatica assume addirittura un tono quasi malinconico.

L'uomo che splende e' un assassino, uno stupratore, uno stuprato, uno sconfitto il cui corpo e' troppo pesante per reggersi in piedi.
Si ritaglia quindi un ruolo molto speciale "When will I return?", cantata da Mrs. Gira in persona.
Dice lui:

I wrote the song ‘When Will I Return?' specifically for Jennifer Gira to sing. It’s a tribute to her strength, courage, and resilience in the face of a deeply scarring experience she once endured, and that she continues to overcome daily.

A quanto pare la donna, dopo aver subito un'aggressione sessuale, combatte ancora oggi con il ricordo, la paura e i fantasmi ma e' viva e, per l'appunto, combatte.
Ed e' a questa forza, credo, che Mr. Gira rende onore, la forza che manca all'uomo spendente, uomo che trova la pace solo alla fine, solo lasciando che tutto si dissolva nella polvere e nell'abbandono: non c'e' battaglia se non con se' stessi e Gira ne esce sconfitto, meno splendente e piu' uomo che mai.


Lista delle tracce:

[Disk 1]
Cloud of forgetting
Cloud of fnknowing
The world looks red / The world looks black
People like Us

[Disk 2]
Frankie M
When will I return?
The glowing man
Finally, Peace

sabato 9 luglio 2016

P.J. Harvey - The Hope Six Demolition Project [2016]

Sfondo bianco e una specie di stemma araldico disegnato come a matita: l'immancabile scudo diviso in quattro parti e' al centro dell'immagine, e su di esso sono riportate tre chiavi nel quadrante in alto a sinistra e tre macchie che fanno pensare a cadaveri di conigli nel quadrante in basso a destra, mentre gli altri due quadranti sono immacolati. Ai lati dello scudo due animali, un caprone a sinistra e un cane a due teste a destra: il primo poggia un piede su tre frecce ed e' fasciato da quello che ricorda un cinturone da mitragliatrice, il secondo poggia i piedi su un kalashnikov. Sotto lo scudo un nastro su cui e' scritto in stampatello P J HARVEY, mentre in alto, in rosso scarlatto, unico colore presente nell'immagine, sempre in stampatello, compare il titolo dell'album: le corna del caprone sono come incastrate tra le lettere "SIX".

Play.


Polly Jean e' una di quegli artisti che si sono guadagnati da sempre e per sempre il mio amore incondizionato (del resto il nome della mia Polly viene da li'), ergo in tutto quel che scrivo e scrivero' a riguardo temo sia necessario tener conto del mio essere impari.

La passione degli anni giovanili, l'oscurita', la malinconia dell'eta' adulta... tutto cio' e' stato lasciato alle spalle e una nuova Polly Jean, matura, consapevole e battagliera, ci racconta storie di degrado, violenza e disperazione con voce da bambina, la voce di chi le osserva da fuori, ne rimane colpito, ma infondo sa di non farne parte.
Ci sono voluti cinque anni di assoluto silenzio, cinque anni in cui la Signora del Dorset ha viaggiato, ha riempito gli occhi, le orecchie e il cuore di immagini che difficilmente l'abbandoneranno.
E ora e' pronta per raccontare, con paragoni forse neanche cosi' azzardati.

"The Hope Six Demolition Project" racconta di tre luoghi: il Kosovo, l'Afghanistan e Washington D.C. (Mall e Anacostia). Ci vogliono occhi buoni per pensare di accostarli, occhi buoni e quel tanto di ironica tracotanza inglese (azzardo: europea!) che evidentemente non manca alla Signora.

Non ho mai visto ne' il Kosovo ne' l'Afghanistan ma ho visto la Palestina, che non non credo sia molto piu' allegra, e certe immagini mi si sono inevitabilmente scolpite dentro.
Non ho mai passeggiato per Anacostia ma il sobborgo malandato nordamericano e' una realta' che ormai posso dire di conoscere, ci vivo dentro, ne conosco i ritmi, il respiro, l'odore persistente che niente e nessuno sara' mai davvero in grado di descrivere.
"Ci metteranno un Wallmart qui" dice la Harvey nella traccia-titolo, restituendomi fin da subito le immagini in tutti i loro dettagli.

Il mio primo viaggio a Washington D.C. aveva prodotto questo, il suo ha prodotto questo: fa un certo effetto rendersi conto di essere state colpite in modo simile, con la differenza abissale che all'artista bastano poche parole, un cambio armonico e il ritmo di una marcia. Ma siamo li'.
O forse e' quel che ci leggo io, chissa'.
Eggia', e' forse proprio il mio strano rapporto col sobborgo nordamericano che mi fa apprezzare questo lavoro in maniera particolare, perche' ho la sensazione di capirlo meglio di quanto avrei fatto due anni fa, anzi, meglio di quanto non faccia la stessa Polly Jane.

Non bastano pochi passi per capire, non bastano due anni, chissa' se basta una vita.


Lista delle tracce:

The community of hope
The ministry of Defence
A line in the sand
Chain of keys
River Anacostia
Near the memorials to Vietnam and Lincoln
The orange monkey
Medicinals
The ministry of Social Affairs
The wheel
Dollar, dollar