Nero inchiostro, nessuna immagine, nessuna luce o trasparenza, solo nero ad eccezion fatta del nome della band e il titolo dell'album, uno sotto l'altro scritti in un verdazzurro fosforescente e caratteri da shell linux. Appena sotto, il tipico trattino-basso di quando il computer e' in attesa di istruzioni.
Play.
Sia lode e gloria al Re Corvo Nero.
Provo un certo orrore di me stessa nello scrivere di questo album, eppure una forza potente di espiazione mi costringe a farlo.
Spiego.
Generalmente tendo a considerarmi una persona dotata di una certa empatia, e' il mio vanto e il mio tormento, eppure a volte tocco delle punte di cinismo glaciale che mi spaventa.
Poco piu' di un anno fa, quel maledetto 14 luglio, ero con una delle mie migliori amiche (per altro la stessa mia compagna d'avventure in vari concerti, tra cui questo) e sua figlia, venutemi a trovare ad Hamilton per le vacanze estive. Eravamo andate a far colazione con uova e bacon (e salsicce, e patate, e pancackes... oh, io la mattina ho fame!) in un posto di quelli aperti h24, uno di quelli che odorano di malsano e sugna, una di quelle cose che vanno provate almeno una volta per poter dire di essere stati in nordamerica; eravamo li' dunque, pronte a gustarci una luminosa giornata di soleggiato luglio-canadese, quando alla tv del locale passa la terribile notizia: il figlio di Nick Cave e' caduto da una scogliera, si e' schiantato al suolo ed e' morto.
Dopo un primo momento di inevitabile smarrimento sorprendo me stessa nel sentire la mia stessa voce esclamare "Il suo prossimo album, se riesce a farne uno, sara' bellissimo!".
La mia amica aveva sbarrato gli occhi al mio indirizzo: come potevo io pensare una cosa del genere di fronte a un lutto cosi' straziante?, come ho potuto dirlo ad alta voce?, che razza di mostro senza cuore puo' concepire un pensiero simile?, davvero non riuscivo a sentire l'uomo-Cave e il suo tormento?, la mia mente lo capiva ma il mio cuore non lo sentiva, come se si trattasse di una delle sue favole-dark, non di vita vera... perche' non ho provato niente in quel momento?
Orrore.
Certo pero' che avevo ragione: si tratta di un album davvero bellissimo.
Trentanove minuti e quarantasei secondi torcibudella.
Musicalmente l'impressione e' che Skeleton Tree si inserisca perfettamente dietro la scia di Push the sky away, che fra l'altro (a pensarci) e' stato l'album della mia prima recensione su queste pagine, quando ancora non mi era chiaro che piega avrebbe preso questo blog.
Suoni lunghissimi di organi, archi e sintetizzatori, quasi totale assenza di ritmi identificabili, infiniti tappeti arabescati, immancabilmente firmati Warren Ellis, avvolgono la voce del Re Inchiostro e l'accompagnano tenendola per mano.
Direi anzi che questo nuovo lavoro esalti all'ennesima potenza le intuizioni stilistiche del precedente, spingendosi la' dove quello non aveva ancora osato arrivare.
Ma qui ovviamente la voce trema, piange, irrimediabilmente spezzata per sempre, invecchiata senza scampo da un giorno all'altro: vuoto, vuoto, vuoto.
In Push the sky away si poteva ancora perder tempo a pensare alle vite passate, alle infamie, alle gioie, alle delusioni da allontanare, alle occasioni perdute: si poteva ancora ballare un sexy-blues selvaggio.
Ora no, non piu'.
Niente piu' ballate di assassini o blues sensuali, niente piu' ossessioni allucinogene, neanche piu' un dio consolatore: oggi c'e' solo un immenso senso di nulla, c'e' un dolore che non da tregua e non permette di sentire altro.
La morte non e' piu' una favola oscura da raccontare con furbesca malizia: questa volta e' irrimediabilmente reale e si abbatte come una scure sulle corde vocali del nostro e sul suo modo quasi apatico (sic) di sfiorare gli strumenti.
E lui, Mr. Cave, puo' dire cio' che vuole, che questo album non ha a che vedere con suo figlio e che le canzoni sono state scritte precedentemente, ma se il primissimo verso di apertura dell'album recita "You fell from the sky", tu puoi pure far finta di credere che stia davvero parlando del disastro aereo di Shoreham ma la prima immagine che ti si para davanti e' quella del gracile corpo di un quindicenne, con ancora gli allucinogeni in circolo, fracassato sulle rocce di Ovingdean.
Il resto, infondo, e' accademia.
Ed e' disgustoso anche che io sia qui a scriverne.
Non c'e' niente da scrivere, solo da ascoltare, a ripetizione, e lasciarsi avvolgere.
Nick Cave non sara' mai piu' lo stesso uomo che ho visto quella sera.
E' difficile prevedere come evolvera', ma non credo potra' mai piu' emanare quel fascino magnetico di animale selvaggio: un'aura diversa lo avvolge ormai, ascoltare per credere.
Lista delle tracce:
Jesus alone
Rings of Saturn
Girl in amber
Magneto
Anthrocene
I need you
Distant sky
Skeleton tree
sabato 24 settembre 2016
martedì 20 settembre 2016
Radici
Elefanti bianchi e neri
Erano un di' scontrosi e fieri
Destinati nella lotta
Tutti quanti alla sconfitta
Triste assai la loro sorte
Guerra porto' tutti alla morte
Solo pochi bianchi e neri
Calmi, astuti, pacifici e sinceri
Fuggire decisero in un boschetto
Contrari loro a qualsiasi conflitto
Figli grigi nacquero in quella situazione
Ma ancora non vedo la nazione
Fatta di quei pacifici animali giganti
Che io e te chiamiamo "Elefanti"
Erano un di' scontrosi e fieri
Destinati nella lotta
Tutti quanti alla sconfitta
Triste assai la loro sorte
Guerra porto' tutti alla morte
Solo pochi bianchi e neri
Calmi, astuti, pacifici e sinceri
Fuggire decisero in un boschetto
Contrari loro a qualsiasi conflitto
Figli grigi nacquero in quella situazione
Ma ancora non vedo la nazione
Fatta di quei pacifici animali giganti
Che io e te chiamiamo "Elefanti"
giovedì 1 settembre 2016
Marlene Kuntz - Lunga attesa [2016]
Un corridoio semibuio in prospettiva; le pareti hanno la vernice scrostata, le luci hanno un che di inquietante. Al centro dell'immagine i quattro (ormai si puo' dire) Kuntz, da sinistra a destra Bergia, Lagash, Godano e Tesio, vestiti con completi a meta' strada tra l'elegante e il kitsch. Il nome della band e' il alto, il titolo dell'album in basso, entrambi scritti piccoli, di un bianco perfetto.
Play.
Non e' stata poi lunga l'attesa da "Nella tua luce", giusto un paio d'anni e mezzo, e con la pausa Pansonica a spezzare il silenzio (che poi io oggi piu' che mai penso che Pansonica non sia del tutto degli anni novanta, ma vabbeh...).
Lunga invece, davvero lunga ahime'!, e' stata la mia di attesa. Gioie e dolori della vita oltreoceano, che se e' vero che certe cose mi arrivano in anticipo e' vero anche che le spedizioni dallo Stivale sono state quasi sempre abbastanza problematiche (Monsieur Cambuzat ricordera' di certo le disavventure che abbiamo passato l'anno scorso...).
Ovviamente avevo acquistato il CD in preordine, e altrettanto ovviamente dall'uscita dell'album (fine gennaio) non ho ascoltato niente di cio' che le reti sociali cercavano di propormi: non un singolo, non un video, neanche le musiche che altri avevano scritto sul testo della traccia titolo... niente: il primo ascolto di un disco e' per me un momento sacro, specie se si tratta di un disco di Marlene.
Purtroppo di questi tempi e' impossible rimanere del tutto all'oscuro anche se lo si vorrebbe: l'occhio inevitabilmente cade sui titoli di troppi articoli e alla fine qualche informazione passa, sempre distorta, cosi' che la magia di quel primo ascolto e' rovinata.
Tant'e': vantaggi e svantaggi del mondo moderno.
Finalmente a fine luglio (sic!) ho avuto per le mani questo album e con religioso rispetto lo ho potuto lasciar suonare.
Maledette siano le reti sociali!
Ti capita di intra-leggere di un ritorno di Marlene alle glorie del passato e cosi' quelle chitarre, li' per li', non ti dicono niente, non spiazzano, non sconquassano, peggio, sono vagamente simili a cio' che ti aspettavi ma non si avverte minimamente questo fantomatico "ritorno al passato": manca completamente l'urgenza di quando loro avevano poco piu' di trent'anni e tu neanche quindici, che poi era tutto il senso di quella Marlene, sicche' riesci solo a domandarti come sia potuto accadere che Godano stia utilizzando la parola "populista" in un testo.
Possibile che proprio quando tutto il mondo si ritrova entusiasta sotto le bandiere del vecchio logo io, proprio io, la fan-acritica, debba storcere la bocca?, non e' che mi sono improvvisamente trasformata in uno di quegli sgradevoli dottor Livore mai contenti?
Poi arriva "Lunga attesa" e cambia tutto: che figli di puttana!, ti dici alla romana sorridendo d'ammirazione.
E cosi' da traccia quattro in poi, tutto l'ascolto del disco cambia completamente e Marlene torna a parlare con la sua voce ruvida e sensuale. E tu resti li', ammaliato e sospeso, mentre lei ti sferza.
E poi via da capo con il secondo, il terzo, il quarto ascolto, e ancora e ancora e ancora.
Senza mai saziarsene.
Quelli che parlano (scrivono) di un ritorno al passato non hanno capito niente.
Ecco, lo ho detto.
Perentorio.
E ora lo elaboro.
Il percorso di Marlene magari non e' lineare ma certamente e' unidirezionale: non torna mai indietro, il suo cammino la spinge comunque sempre altrove.
Marlene non sa stare ferma.
Queste chitarre, seppur graffianti, sono ben lontane da quelle degli anni novanta: grezze e urgenti quelle, raffinate ed eleganti queste, parlano di esseri umani diversi!
Anche i ritmi sono diversi: puoi ascoltarli quanto vuoi, ma nessuno di questi brani sarebbe stato bene dentro "Il vile", che che se ne scriva.
Certo, i passaggi arabo-rock di Tesio sono sempre li', Bergia picchia sempre, il braccio destro di Godano e' sempre rigido e nervoso, e infondo anche io resto sempre la bambina che giocava piu' volentieri da sola con un arco di legno costruito personalmente con un ramo e un pezzo di spago. Pero' ovviamente io oggi sono anche un'altra cosa, ho addirittura un capello bianco (di cui vado fierissima!) e qualche problema al nervo sciatico; e cosi' anche Marlene, pur rimanendo la rockettara degli anni novanta, oggi e' una Signora di cinquant'anni che preferisce il vino alla birra.
E mi sento di aggiungere inoltre che senza la "triade intermedia" ("Che cosa vedi"-"Senza peso"-"Bianco sporco") cosi' come senza il tanto villipeso "Uno" (che a me e' sempre piaciuto, ma si sa che sono di parte) non saremmo mai arrivati qui.
Come sempre mi ammaliano i ritmi, che qui piu' che mai sono potenti ed eleganti.
Bergia stuzzica l'ascolto con tocchi inattesi e passi nuovi all'orecchio di chi lo conosce bene.
La mano destra di Tesio mi sembra piu' morbida che mai e anzi, a tratti mi destabilizza con pause e riprese in controtempo di quelle che proprio non ti aspetti... la destra si', proprio lei: di tutte le mani di tutti i chitarristi viventi (tutti!) la mano destra di Tesio e' quella che vorrei avere io!, della sinistra non mi importa, toh, mi tengo anche la mia, ma la destra...
Eppure questa volta, per la prima volta da quando avevo quindici anni, sono anche i testi a stuzzicare la mia curiosita'.
Dice "ma come?, i testi di Godano non ti colpiscono da cosi' tanto tempo?".
Non ho detto questo.
Ma certo questi mi hanno strappato piu' di un sorriso.
Perche' (tanto per fare un esempio) Godano era quello che diceva che la musica dovrebbe essere eterna e non parlare di attualita', perche' l'attualita' svanisce e tra dieci o vent'anni non parla piu' a nessuno... e allora come mai oggi se ne esce con "Charlie Hebdo"? Ebbene ce lo spiega lui stesso, senza troppi giri di parole: "non e' una novita', non c'e' niente di nuovo". Percio' ecco, se in prima battuta ci rimani male all'idea che il fossanese possa aver cambiato idea basta poco per capire che lui e' sempre lui e se la ride di gusto.
Cosi' come non ha piu' remore ad autocitarsi (perche' no?, cosa mai c'e' piu' da nascondere?) nel cercare di riassumere la sua storia, ma l'acme infondo lo raggiunge nell'ammettere "che la vicenda ha una sua complessita' miserevole".
Lagash ormai e' a pieno titolo il quarto Kuntz dopo dieci anni di formazione a tre; anche in Pansonica aveva guadagnato un posto in copertina, ma qui ne apprezziamo davvero la presenza strumentale, se ne inizia a riconoscere la mano, comincia finalmente a dire la sua, e va detto che ci sta proprio bene.
L'unico rimpianto e' quello di vivere a troppi chilometri da un concerto di Marlene, cosa di cui oggi piu' che mai sento la mancanza, ma prima o poi capitera' che io sia nello Stivale durante un tour, perche' per lo Stivale ogni tanto ci si passa, e sara' bellissimo esserci di nuovo, me lo prometto.
Cosi', giusto per coccolare il mio ego in mancanza d'altro, rileggo quello che scrivevo a proposito dell'album precedente e... toh...
Cosa manca per farne un grande album? Sicuramente qualcosa, ma se vogliamo dar credito alla mia teoria, questo qualcosa sara' nel prossimo...
Ma guarda un po'.
Lista delle tracce:
Narrazione
La noia
Niente di nuovo
Lunga attesa
Un po' di requie
Il sole e' la liberta'
Leda
La citta' dormitorio
Sulla strada dei ricordi
Un attimo divino
Fecondita'
Formidabile
Play.
Non e' stata poi lunga l'attesa da "Nella tua luce", giusto un paio d'anni e mezzo, e con la pausa Pansonica a spezzare il silenzio (che poi io oggi piu' che mai penso che Pansonica non sia del tutto degli anni novanta, ma vabbeh...).
Lunga invece, davvero lunga ahime'!, e' stata la mia di attesa. Gioie e dolori della vita oltreoceano, che se e' vero che certe cose mi arrivano in anticipo e' vero anche che le spedizioni dallo Stivale sono state quasi sempre abbastanza problematiche (Monsieur Cambuzat ricordera' di certo le disavventure che abbiamo passato l'anno scorso...).
Ovviamente avevo acquistato il CD in preordine, e altrettanto ovviamente dall'uscita dell'album (fine gennaio) non ho ascoltato niente di cio' che le reti sociali cercavano di propormi: non un singolo, non un video, neanche le musiche che altri avevano scritto sul testo della traccia titolo... niente: il primo ascolto di un disco e' per me un momento sacro, specie se si tratta di un disco di Marlene.
Purtroppo di questi tempi e' impossible rimanere del tutto all'oscuro anche se lo si vorrebbe: l'occhio inevitabilmente cade sui titoli di troppi articoli e alla fine qualche informazione passa, sempre distorta, cosi' che la magia di quel primo ascolto e' rovinata.
Tant'e': vantaggi e svantaggi del mondo moderno.
Finalmente a fine luglio (sic!) ho avuto per le mani questo album e con religioso rispetto lo ho potuto lasciar suonare.
Maledette siano le reti sociali!
Ti capita di intra-leggere di un ritorno di Marlene alle glorie del passato e cosi' quelle chitarre, li' per li', non ti dicono niente, non spiazzano, non sconquassano, peggio, sono vagamente simili a cio' che ti aspettavi ma non si avverte minimamente questo fantomatico "ritorno al passato": manca completamente l'urgenza di quando loro avevano poco piu' di trent'anni e tu neanche quindici, che poi era tutto il senso di quella Marlene, sicche' riesci solo a domandarti come sia potuto accadere che Godano stia utilizzando la parola "populista" in un testo.
Possibile che proprio quando tutto il mondo si ritrova entusiasta sotto le bandiere del vecchio logo io, proprio io, la fan-acritica, debba storcere la bocca?, non e' che mi sono improvvisamente trasformata in uno di quegli sgradevoli dottor Livore mai contenti?
Poi arriva "Lunga attesa" e cambia tutto: che figli di puttana!, ti dici alla romana sorridendo d'ammirazione.
E cosi' da traccia quattro in poi, tutto l'ascolto del disco cambia completamente e Marlene torna a parlare con la sua voce ruvida e sensuale. E tu resti li', ammaliato e sospeso, mentre lei ti sferza.
E poi via da capo con il secondo, il terzo, il quarto ascolto, e ancora e ancora e ancora.
Senza mai saziarsene.
Quelli che parlano (scrivono) di un ritorno al passato non hanno capito niente.
Ecco, lo ho detto.
Perentorio.
E ora lo elaboro.
Il percorso di Marlene magari non e' lineare ma certamente e' unidirezionale: non torna mai indietro, il suo cammino la spinge comunque sempre altrove.
Marlene non sa stare ferma.
Queste chitarre, seppur graffianti, sono ben lontane da quelle degli anni novanta: grezze e urgenti quelle, raffinate ed eleganti queste, parlano di esseri umani diversi!
Anche i ritmi sono diversi: puoi ascoltarli quanto vuoi, ma nessuno di questi brani sarebbe stato bene dentro "Il vile", che che se ne scriva.
Certo, i passaggi arabo-rock di Tesio sono sempre li', Bergia picchia sempre, il braccio destro di Godano e' sempre rigido e nervoso, e infondo anche io resto sempre la bambina che giocava piu' volentieri da sola con un arco di legno costruito personalmente con un ramo e un pezzo di spago. Pero' ovviamente io oggi sono anche un'altra cosa, ho addirittura un capello bianco (di cui vado fierissima!) e qualche problema al nervo sciatico; e cosi' anche Marlene, pur rimanendo la rockettara degli anni novanta, oggi e' una Signora di cinquant'anni che preferisce il vino alla birra.
E mi sento di aggiungere inoltre che senza la "triade intermedia" ("Che cosa vedi"-"Senza peso"-"Bianco sporco") cosi' come senza il tanto villipeso "Uno" (che a me e' sempre piaciuto, ma si sa che sono di parte) non saremmo mai arrivati qui.
Come sempre mi ammaliano i ritmi, che qui piu' che mai sono potenti ed eleganti.
Bergia stuzzica l'ascolto con tocchi inattesi e passi nuovi all'orecchio di chi lo conosce bene.
La mano destra di Tesio mi sembra piu' morbida che mai e anzi, a tratti mi destabilizza con pause e riprese in controtempo di quelle che proprio non ti aspetti... la destra si', proprio lei: di tutte le mani di tutti i chitarristi viventi (tutti!) la mano destra di Tesio e' quella che vorrei avere io!, della sinistra non mi importa, toh, mi tengo anche la mia, ma la destra...
Eppure questa volta, per la prima volta da quando avevo quindici anni, sono anche i testi a stuzzicare la mia curiosita'.
Dice "ma come?, i testi di Godano non ti colpiscono da cosi' tanto tempo?".
Non ho detto questo.
Ma certo questi mi hanno strappato piu' di un sorriso.
Perche' (tanto per fare un esempio) Godano era quello che diceva che la musica dovrebbe essere eterna e non parlare di attualita', perche' l'attualita' svanisce e tra dieci o vent'anni non parla piu' a nessuno... e allora come mai oggi se ne esce con "Charlie Hebdo"? Ebbene ce lo spiega lui stesso, senza troppi giri di parole: "non e' una novita', non c'e' niente di nuovo". Percio' ecco, se in prima battuta ci rimani male all'idea che il fossanese possa aver cambiato idea basta poco per capire che lui e' sempre lui e se la ride di gusto.
Cosi' come non ha piu' remore ad autocitarsi (perche' no?, cosa mai c'e' piu' da nascondere?) nel cercare di riassumere la sua storia, ma l'acme infondo lo raggiunge nell'ammettere "che la vicenda ha una sua complessita' miserevole".
Lagash ormai e' a pieno titolo il quarto Kuntz dopo dieci anni di formazione a tre; anche in Pansonica aveva guadagnato un posto in copertina, ma qui ne apprezziamo davvero la presenza strumentale, se ne inizia a riconoscere la mano, comincia finalmente a dire la sua, e va detto che ci sta proprio bene.
L'unico rimpianto e' quello di vivere a troppi chilometri da un concerto di Marlene, cosa di cui oggi piu' che mai sento la mancanza, ma prima o poi capitera' che io sia nello Stivale durante un tour, perche' per lo Stivale ogni tanto ci si passa, e sara' bellissimo esserci di nuovo, me lo prometto.
Cosi', giusto per coccolare il mio ego in mancanza d'altro, rileggo quello che scrivevo a proposito dell'album precedente e... toh...
Cosa manca per farne un grande album? Sicuramente qualcosa, ma se vogliamo dar credito alla mia teoria, questo qualcosa sara' nel prossimo...
Ma guarda un po'.
Lista delle tracce:
Narrazione
La noia
Niente di nuovo
Lunga attesa
Un po' di requie
Il sole e' la liberta'
Leda
La citta' dormitorio
Sulla strada dei ricordi
Un attimo divino
Fecondita'
Formidabile