mercoledì 30 dicembre 2015

Paolo Benvegnu' @ Monk Club - Roma

28 dicembre 2015

Il regalo di Natale perfetto prima di tornare alle grigie lande del sud-Ontario: l'ultima data del tour di Earth Hotel.
Il posto e' lo stesso di due giorni fa ma la situazione e' completamente diversa; sara' che e' lunedi' sera ma c'e' davvero poca gente, incredibilmente poca, e quella poca sembra ancor piu' radical-chic di quella che s'e' vista sabato sera: questi sono piu' calmi, piu' adulti, piu' "signori". Infondo, a pensarci, non sorprende poi tanto.
Questa sera sono sola, questa non e' un'esperienza che io possa condividere, il mio legame con la discografia del signor Benvegnu', con i (plurale!) Paolo Benvegnu' o con gli Scisma, e' troppo intimo, troppo privato, troppo nudo: un concerto come questo per me non e' un "semplice" evento musicale, non e' solo musica che cerco e so gia' che non e' solo musica cio' che trovero', che' ogni brano mi parlera' di qualcosa: un luogo, una persona, una sensazione, un ricordo, un sogno. Con questi Signori va sempre cosi', c'e' una strana commistione di musica (e che musica!) ed emozioni, una risonanza che non so spiegare ma che mi impedisce di vivere un loro concerto se non cosi', emotivamente nuda.

Entro presto, la sala e' vuota e agguanto anche troppo facilmente un posto in prima fila al centro del palco, con visuale perfetta su tutti i Musicisti.
Dalla mia postazione, sporgendomi, intravedo accanto ai pedali del Signor Benvegnu' la scaletta: non riesco a leggerla, e' troppo buio e in piu' non voglio guastarmi la sorpresa dei brani, ma sembra ragionevolmente lunga: ottimo!, penso tra me.

Presto entra il ragazzo-spalla, chitarrina classica in braccio, voce leggera: e' da solo sul palco, lui con la sua chitarrina, e penso che ci voglia davvero un gran coraggio per affrontare da soli il pubblico di un altro gruppo.
Si presenta come "Frisino", un nome che e' tutto un programma, e li', su quel palco cosi' grande per lui solo, pare un uccellino; quando si rivolge a noi ha la voce che trema ma al dunque e' perfettamente in grado di tirarla fuori e anche piuttosto bene. Soprattutto mi fa tenerezza il modo in cui ci ringrazia: si vede che quel "grazie!, grazie mille!, grazie!" lo pensa davvero con una certa emozione, c'e' una dolcezza poetica nei suoi modi che mi strappa un sorriso.

Quando esce la sala e' ancora semivuota e a questo punto mi sa che non si riempira' piu': d'accordo, e' lunedi' sera, ma data la mia ammirazione per i Signori in questione sono comunque spiazzata.
Nel mentre i tecnici aggiustano il palco, accordano un'ultima volta gli strumenti, cambiano l'asta del microfono. Esce anche Franchi alla ricerca di qualcosa, perlustrano il palco in lungo e in largo, dietro gli amplificatori, sotto la pedana della tastiera; alla fine trovano una borsa e, soddisfatti, escono: a breve si comincera', penso.

Buio.

Il primo ad uscire e' di nuovo Franchi che, con mia massima sorpresa, va ad imbracciare una chitarra: dietro la batteria siede uno che non avevo mai visto e di cui (chiedo scusa) non ho capito il nome. Poi, in rapida successione, entrano anche gli altri.
Applausi.
Franchi mi vede subito, sorride e mi saluta con la mano; lo ricambio con un sorriso e un compiaciutissimo cenno della testa: non ero sicura che mi avrebbe riconosciuta e ovviamente la cosa mi fa molto piacere.

L'apertura e' affidata a "Orlando" e penso che sono degli assassini seriali a voler cominciare cosi': Orlando parla direttamente con me, riconosco la sua voce, mi fa tenerezza e rabbia vederlo li', tranciato dalla sua stessa trebbiatrice... Peccato che il bilanciamento dei suoni sia tremendo: quel basso e' bellissimo ma cosi' e' troppo forte perche' lo si possa apprezzare, mi rimbomba in faccia e non riesco ad gustarlo completamente, nessuno potrebbe. Non finiscono il brano, non danno il tempo al poveretto di sedersi sulle pietre, lo lasciano li' a gridare mentre tutto gli parla di "lei", e attaccano il ritmo incalzante di "Nello spazio profondo" che stasera mi pare piu' incalzante che mai e concede il tempo di sistemare l'audio. E, inevitabilmente, precipito.
A seguire una "Feed the destruction" potente, lancinante, mi prende lo stomaco: addio Roma, addio casa (e non lo so nemmeno piu' dov'e' "casa", se ne esiste davvero una), addio amici, addio... siete tutti troppo lontani, io sono cosi' dolorosamente lontana... in questi giorni sono di passaggio, mi sento di passaggio, e domani tornero' al silenzio di Hamilton, al cielo grigio e pesante del sud-Ontario, al lago che in inverno e' cosi' silenzioso che il suo rumore rimbomba nel profondo del cuore...
Accidenti non posso commuovermi gia' al terzo brano!, dovrei riprendermi, vorrei riprendermi, ma i Signori non me lo consentono: parte "Avenida silencio", e il mio sguardo torna su King Street, sul ponte della superstrada in una mattina di novembre di un anno fa, mentre camminavo in mezzo a una bufera di neve per andare all'universita', con questa musica nelle orecchie e il pensiero rivolto a Roma morta non in un giorno ma in un istante, in questo istante: "Avenida silencio" e' e restera' quel posto li', quel momento li'... La chiudono con un finale sonico bellissimo, con Franchi che fa magie sul sintetizzatore ed e' un brivido sotto la pelle.
Non paghi fanno seguire "Una nuova innocenza" e capisco una volta di piu' come in quest'anno, dopo un inverno a Hamilton, un giugno sconquassante e un autunno confuso, il mio sentire sia cambiato: non posso pensarci adesso, non ho nessuna voglia di farlo. Guardo il batterista, i sorrisi che gli rivolgono gli altri, e penso che se la sta cavando egregiamente.
Ora anche Baldini mi ha vista e mi fa un cenno col capo: sorrido di rimando e penso che e' incredibile che si ricordino di me.
Finalmente mi concedono un attimo di respiro e suonano "Quando passa lei" che mi riporta a un tempo felice; anche questa volta come sempre, mi strappa un sorriso e un pensiero a cio' che non lascero' mai uscire dalla mia vita: l'intermezzo sonico che ci regalano e' una perlina auditiva che mi riporta nella sala e costringe i miei occhi sulle loro mani, sui loro strumenti.
Segue "Il mare verticale", condita con stacchi sexy-blues che suscitano un orgasmo sonoro: li godo tutti, uno per uno, li lascio penetrare. Quanta bellezza...
La pausa sarebbe finita, "Avanzate, ascoltate" mi scuote le ossa e sta per lanciarmi su un divano in una stanza dalle pareti gialle ma non voglio permetterlo, e' ora di riprendere il controllo della situazione e concentro tutte le energie sul palco, sui musicisti, sulle note che Lazzeri, da li' dietro, accarezza con garbo, sul finale sonico che mi esplode in faccia e mi stordisce.
E' un concerto supersonico quello cui sto assistendo, un concerto bellissimo.
"Il prossimo brano" dice Benvegnu' "e' di un album un po' vecchio che si chiama Hermann, si intitola "Love is talking" ed e' un brano cui siamo molto legati". Vorrei dir loro che anche io sono legata a quel brano, quel giro di basso si attorciglia intorno a me e fa tremare l'aria: cerco di guardare con attenzione le mani di Baldini, vorrei imparare a suonarlo ma ho gia' dimenticato troppo e chissa' ormai quanto ci mettero' a ricostruirlo...
Al termine del brano suoni lunghi, lunghissimi, ci introducono a una versione super-rock di "Suggestionabili" che gridata cosi', con questa potenza, con questa intensita', con questa nudita', e' straziante: mai come oggi l'ho sentita cosi' dolorosamente mia.
Poi altri fischi morbidi e caldi ci conducono per mano verso "Io e te" e qualcosa in quei suoni me la fa indovinare in anticipo: alzo lo sguardo verso Benvegnu', dritto davanti a me, faccio appena in tempo a pensare "vabbeh, allora uccidimi!" ed ecco un altro balzo indietro, le alpi marittime, il cielo in una stanza d'albergo, Mina... associazioni di idee troppo facili per non scadere in un vergognoso cliche'. Franchi allunga i suoni all'infinito con una slide, i tempi sono dilatati come a prolungare la mia agonia (ma che bell'agonizzare!), "e poi dimmi se ci sei" grida Benvegnu' dal fondo dello stomaco, il brano esplode e torno in me.
Alla fine del brano Benvegnu' e Franchi riaccordano le rispettive chitarre in drop-d e di nuovo capisco immediatamente; "Johnny & Jane" suscita in me sentimenti contrastanti di benessere macchiato di attese disattese, perche' nella vita vera la paura non va via montando su un cavallo bianco (che per altro non arriva mai) ne' su un volo transoceanico: fa molto piu' effetto pedalare con tutta la forza che si ha nelle gambe a meno quindici in riva all'Ontario ghiacciato, sotto un cielo grigio pesante come un coperchio. Sorrido e riporto l'attenzione al palco, all'arpeggio, alla Musica.
Alla fine del brano un inchino e via, spariscono rapidamente dietro le tende.

Pausa.
Brevissima.

Sono di nuovo fuori, con "Io ho visto" che mi ricatapulta su un treno, ma e' solo un attimo, un battito di ciglia: tutta la mia attenzione e' incentrata sulle note e sui ritmi di questo brano bellissimo e ne lascio fluire la Musica fuori e dentro di me.
Poi "Nel silenzio" mi strappa un sorriso, mi inumidisce gli occhi di dolcezza e mi toglie il respiro: pensavo che avrei visto altro e invece, a quanto pare, c'e' ancora l'ulivo di Largo Murialdo pochi mesi prima di discutere la tesi di dottorato, poco prima che la Vita prendesse quello spin portentoso la cui forza centrifuga mi ha spedita in Canada.
A chiusura di questa seconda parte "E' solo un sogno" come un anno fa, ma anche qui mi accorgo che la mia percezione e' cambiata e questa volta sono sul 16 in direzione Toronto, sulla QEW, in quel punto della strada dove all'improvviso, da dietro il gruppo di grattacieli residenziali che introducono alla citta' (anzi, alla Citta') appare il lago, si vede la CN Tower avvicinarsi e il cuore si apre alla meraviglia.

Ri-Pausa.
Ri-brevissima.

Emergono e riattaccano da uno splendido finale per "E' solo un sogno", un bell'assolo di Franchi, una notevole coda rock: "prima aveva fatto un finale troppo magro" dice Benvegnu' indicando Franchi con un bel sorriso.
Suonano "Sempiterni sguardi e primati" che tocca ancora una volta le stesse corde, perche' a distanza di un anno mi sento ancora persa nel mondo che ho osato cercare. Questa volta pero' il finale lo cantano davvero e mi rendo conto che se un anno fa avrei pianto tutte le lacrime del mondo oggi mi tocca in modo diverso; la ragazza alla mia destra invece si toglie gli occhiali, si passa una mano sugli occhi e quest'immagine mi colpisce violentemente lasciandomi intuire che qualcosa sta cambiando, che il tempo e' passato, e del resto lo vedo ogni giorno nello specchio, in quel primo capello incontestabilmente bianco di cui vado fierissima, e chissa', forse e' vero che sto camminando bene.
E cosi', su questo pensiero, parte "Cerchi nell'acqua" (cosa avevo scritto un paio di mesi fa a proposito del Signor Uomonuovo che cercava di "riconoscersi per cerare"?, sorrido) per il gran finale sonico-rock: questo e' il messaggio con cui i Benvegnu' ci salutano e chiudono un tour durato quasi un anno e mezzo... occhei, messaggio ricevuto, credo.
Presentazione dei musicisti (e niente, il nome del batterista non l'ho capito...), tre inchini, applausi, buio.

Mi siedo su un divanetto ad aspettare (sperare) di veder emergere Andrea per salutarlo; mi dico che posso aspettare un quarto d'ora e se non esce vado a casa ma sono fortunata, esce prestissimo e mi faccio avanti. Sorride nel vedermi, ci abbracciamo e ci raccontiamo vicende e impressioni dell'ultimo anno quasi fossimo vecchi amici: mi colpisce il pensiero di come l'esperienza con musicraiser abbia fatto nascere una specie di amicizia: anche Luca, quando esce e mi vede, mi saluta con un abbraccio al grido di "la canadese!", ma poi, come e' logico, passa oltre.
Domani ho il volo per Toronto e sono gia' stanca morta, ma Andrea ha voglia di chiacchierare e del resto anche io: i miei tentativi di andar via sono debolissimi nonostante sia una settimana che dormo si' e no quattro ore a notte, nonostante mi aspetti un viaggio di piu' di quindici ore (tra una cosa e l'altra). Sono stati giorni cosi' belli - tra parenti, amici e musica - che tutto sommato mi dico che potro' dormire a Hamilton con Ofelia accanto, che questa e' la mia ultima notte a Roma per un po' e vorrei non finisse mai.
Chiacchieriamo a lungo con Andrea, del Canada, dell'Italia, della vita del matematico, di quella del musicista, mi offre da bere e poi, da gran signore, insiste per non lasciarmi da sola alla ricerca di un taxi a Portonaccio: mi offre quindi un passaggio sul pulmino verso il loro albergo da dove mi fara' chiamare un taxi.

Sul pulmino ad un certo punto trovo il coraggio di girarmi verso Benvegnu', seduto dietro di me, e di ringraziarlo del bellissimo regalo che mi hanno fatto nel venire a chiudere il tour a Roma la sera prima della mia partenza: lui mi ringrazia di rimando e mi stringe la mano con un gesto caldo e sincero.
Poi invito Andrea a venire a suonare a Toronto e li' Benvegnu' mi guarda e dice, con una naturalezza che mi spiazza, "tu hai scritto una cosa bellissima: grazie!" (uh?, io?, cos'e' che avrei fatto?) "massi'... una recensione personalissima in cui c'era quest'immagine dei tuoi passi nella neve..."
Dio...
...seriamente?, l'ha letta?, davvero?, e lo ha colpito tanto da associare Toronto a quello che ho scritto?, io, la matematica con l'animo rock, quella che non ha mai avuto il coraggio di provare a fare la musicista e si e' accontentata di suonare per se' stessa e ancor piu' per se' stessa tiene un blog su cui recensisce, per il bene di nessuno se non il suo, gli album e i concerti che la colpiscono in un senso o in un altro... io, con queste idee sconnesse che riporto a tempo perso, sarei riuscita a colpire le persone che mi prendono a pugni nello stomaco ogni volta che suonano una nota su disco o dal vivo? Andiamo, non ha nessun senso... vorrei dire che non e' niente di che, che sono loro a fare cose meravigliose, che io reagisco e basta, ma mi esce un pessimo "no, vabbeh, tu mi hai fatto male..." cui lui reagisce con un "tu invece mi hai fatto bene...". Metto su il tono spavaldo di quando mi sento fragile e dico che in un paio di giorni arrivera' anche il racconto di questa serata; e' vero ovviamente, e' lo scritto che state (ma voi chi?) leggendo, ma la verita' e' che se fossi da sola probabilmente piangerei e basta: eggia', ho la lacrima facile quando si tratta di commuoversi, ma non in pubblico, mai in pubblico.
...certo che sono ridicola: trentadue anni buttati!
Andrea mi chiede del mio lavoro, dei miei "conti": l'immagine del matematico che fa i conti coi numeri e' difficile da sradicare ma la verita' e' che i matematici sono dei pazzi, dei sognatori, dei poeti... o almeno io lo sono e per la prima volta, nel cercare di spiegarmi con lui, trovo la giusta immagine poetico-musicale, imprecisa ma evocativa, per raccontare cosa faccio.
E in un qualche modo, paradossalmente, lo capisco anche io per la prima volta.
Io non cerco di sfondare nessun limite, il muro dell'ignoto lo lascio sfondare ai professionisti, a gente piu' seria e preparata di me; se me lo chiede un matematico, in gergo, io vado a caccia di moti quasiperiodici in sistemi perturbati; per tutti gli altri - e infondo per me stessa - io cerco l'armonia la' dove dovrebbe esserci il caos, e questo perche' ho intimamente bisogno di credere sia cosi' che va il mondo, perche' l'armonia deve sopravvivere al rumore.

E sul taxi verso casa di mio padre, ripensando alla conversazione con Andrea, un'idea mi fulmina, un'idea semplice e bellissima, di quelle che ti fanno sentire il re degli imbecilli per non averci pensato prima, come solo le idee giuste sanno fare: l'unica speranza che ho per fare matematica davvero bene e' quella di ritrovare l'equilibrio e conciliare la matematica col mio animo di musicofila.
Cosa questo significhi all'atto pratico non ne sono ancora sicura, ma capisco intimamente che e' quello che devo fare.
Un ultimo grazie allora, piu' che mai, dal profondo del cuore.
Ad Andrea, a Benvegnu', agli abbracci degli amici, a quelli dei parenti, ai ritorni in Europa con cadenza piu' o meno semestrale che servono un po' a fare il punto della situazione e a dare nuovo slancio in avanti.
Ora mi aspetta un altro inverno canadese ma paradossalmente non vedo l'ora di affrontarlo: sono sopravvissuta una volta, posso farlo di nuovo e meglio.
Io non... io non ha piu' paura.
Davvero.
Grazie.

domenica 27 dicembre 2015

Giorgio Canali plays Joy Division @ Monk Club - Roma

26 dicembre 2015

Quando leggi dell'esistenza di un concerto del genere non puo' che accendertisi qualcosa dentro: se poi sei nella citta' giusta al momento giusto devi andare. Punto.

Organizzo la serata con due amici: una e' quella che e' stata con me qui, qui e qui (robetta...), l'altro e' uno cresciuto a pane "Siberia" e "Desaparecido", uno che aveva l'eta' giusta per farsi scuotere dai CCCP al massimo del loro splendore, uno dotato di un tocco di quella follia buona che lo rende un essere umano unico al mondo.

Il posto e' davvero carino, un circolo ARCI perfettamente adatto ai radical-chic che siamo diventati (mea maxima culpa) e li' per li' un po' mi fa effetto, ma ormai mi ci sto abituando.
In attesa del concerto beviamo una birra seduti su un comodo divanetto in una piccola sala dove stanno proiettando, ma senza volume, Control: certo che l'attore che fa Curtis lo avevano conciato proprio bene!

Entrati nello spazio concerti mi sento toccare su una spalla: mi volto ed ecco "l'immenso T.", un vecchio amico dei tempi delle superiori, uno di quelli del giro dei musicanti (no, "musicisti" sarebbe un termine troppo elevato) adolescenti monteverdini della fine degli anni novanta. Sapevo che avrei incontrato qualcuno di loro questa sera, non ci siamo mai del tutto persi di vista e fa sempre tenerezza incontrarsi in occasioni simili.  Piu' tardi, per mia somma gioia, incontrero' anche un'altro amico di quel tempo, quello che era il mio amico del cuore ma poi la vita ha fatto i suoi giri bislacchi... lui non poteva non esserci, i Joy Division ne ero davvero sicura, ed e' stato dolcissimo vederlo.

Niente gruppo spalla questa sera.
Canali, la Baraldi alla voce (scelta ardita e azzeccatissima) e Greco (Rossofuoco) salgono sul palco verso le undici, forse piu' tardi: il basso e' affidato a zio-computer, la batteria non c'e'.

Attaccano subito con "Atmosphere", con un arpeggio dolcemente distorto di una bellezza implacabile e dolorosa, poi sparano "Transmission" come un turbine punk e cantiamo tutti. Segue una "She's lost control" completamente riarrangiata da brivido, con le note della chitarra di Canali che entrano nelle vene e sconquassano i sensi.
Non si fa a tempo a riprendersi che attaccano una "Days of the Lords" rarefatta e sospesa: in realta' tutte le canzoni, con quel basso pre-registrato e quei duetti di chitarre dai suoni lunghissimi e penetranti, sembrano eteree questa sera, anche quelle piu' veloci ed esplosive. Arriva il turno di "Love will tear us apart" che come la giri e la rigiri e' sempre la piu' ballata dal pubblico. Il tempo di riprendersi e parte "Atrocity exibition" con la Baraldi si dimena sul palco e noi con lei. Poi "Disorder", altra esplosione punk nonostante l'assenza di batteria, e a seguire "Ceremony" che stordisce e fa ballare.
Siamo a "New dawn fades", ipnotica e intensa: chiudo gli occhi e la lascio passare attraverso la pelle, dentro i tessuti organici, infondo alle viscere. Sul finale, lunghissimo, le chitarre si intrecciano facendo venire la pelle d'oca. Letteralmente.
Poi "Twenty four hours" e scariche elettriche che arrivano da tutte le parti. Segue una "Heart and soul" che lascia storditi e senza fiato.
"Direi come fa il papa" dice Canali "il concerto e' finito: andate in pace!, pero' vi faccio prima un ultimo pezzo" e attacca una "Shadowplay" all'ennesima potenza che mi da il colpo di grazia.

Fine.
Di gia'?
Si'.

Scendono dal palco e realizzo che e' davvero gia' finito tutto: e' stato troppo, troppo breve, ne vorrei ancora, andrei avanti per ore.

Capiamoci.
Non era un compito facile, reinterpretare brani che hanno tanto peso storico ed emotivo per tutti i musicofili del rock moderno e' rischioso, i puristi storcono il naso e i dilettanti non capiscono: a mio avviso invece l'operazione e' riuscita perfettamente!, Canali ha reinterpretato i Joy Division in chiave contemporanea, la sua LesPaul calda, ruvida, mistica e sensuale (si', ha reso sensuali i Joy Division!) fischia ancora nelle mie viscere.

Alla fine la mia amica e' stanca e torna a casa; l'amico invece, recentemente tornato single, e' felice e ha voglia di ballare: resto con lui dunque, beviamo un'altra birra e balliamo forse altre due ore nella discoteca rock che ha seguito lo spettacolo.

Passare per l'Italia ha indiscutibilmente dei vantaggi musicali che strappano momenti di dolcezza senza pari.

venerdì 25 dicembre 2015

Marlene Kuntz in Complimenti per la festa - un film di Sbastiano Luca Insigna [2015]

Mi cimento per la prima volta nella recensione di un film, ma infondo non e' un film nel senso stretto del termine e, come potrete (ma voi chi?) forse intuire, si tratta di un'occasione del tutto particolare, il mio primo grande amore musicale, quello che una volta entrato nel cuore non ne esce piu': per chi ne avesse voglia qui i miei scritti in proposito.

Quando un anno fa ho saputo della possibilita' di finanziare il progetto ovviamente non mi sono tirata indietro, anzi ho aderito con gioia ed entusiasmo, sicche' oggi, sotto l'albero, ho un auto-regalo molto speciale: il dvd, la serigrafia che era stata messa sull'amplificatore di Tesio durante il tour dello scorso anno, e (toccando il massimo grado di feticismo musicale da me concepibile) le corde usate della LesPaul "Left", la mia preferita.

Il film parla di "Catartica".

Perche' e' inutile raccontarsela: nella storia della musica italiana "Catartica" ha un ruolo speciale, condiviso (a mio modestissimo e personalissimo giudizio, sia chiaro) con ben pochi altri.

Seguendo musicalmente la scaletta del tour dello scorso anno (ma saltando i brani di Pansonica) ci vengono mostrate immagini del suddetto tour, le scene dei concerti e quelle piu' "casalinghe" dei nostri prima e dopo il palco, mischiate a video risalenti agli anni novanta, partendo dall'epoca in cui "Catartica" non era neanche nelle loro teste (c'erano un po' di canzoni, tanti concerti, tanta voglia) fino al momento in cui Maroccolo entra nelle loro vite, consentendo quindi la nascita di quell'album che cambio' la mia, oltre che la loro.

Ci viene raccontato un processo di creazione che oggi, col senno di poi, appare ineluttabile.

Ci sono le interviste alle persone che c'erano, gli amici di sempre, e mi colpisce violentemente il fatto che io, quei primissimi concerti in giro per lo stivale, non li ho potuti vedere: ahime' sono sempre stata troppo piu' giovane di quanto avrei voluto essere per inclinazione e interessi.

E poi c'e' la Musica, tanta, targata MK, la musica di "Catartica", la musica del mio cuore, quella musica che e' allo stesso tempo una carezza e un pugno sonico in faccia.
Perhe' la musica e' protagonista assoluta di questo documentario, e del resto non poteva che essere cosi'.

E lo leggi negli occhi di Marock che quei ragazzetti cuneesi lo avevano colpito piu' di quanto lui stesso avrebbe potuto immaginare quando li ha chiamati, che dovevano avere dentro un fuoco potente, quello stesso fuoco che ti arriva quando lo stereo ti spara "Sonica" nel cervello, che poi e' lo stesso fuoco che si sente dentro "Musa", checche' se ne dica: e' il sacro fuoco di chi sa far musica e la sa far bene, di chi ha qualcosa da dire e la dice in modo onesto e sincero, senza fronzoli, senza premeditazioni.

Il film e' ottimamente riuscito; non ho molti ricordi di quell'epoca e i pochi che ho sono quelli di una bambina delle elementari, ma quando l'immagino e' cosi' che mi appare: un mondo in cui "Catartica" non esiste e in cui, quasi dal nulla, "Catartica" esplode.

E una menzione d'onore va al montatore per aver incollato ogni canzone da vari momenti di vari concerti dello scorso anno, un lavoro di cesello che da l'impressione di un collage sonico perfetto.
E le immagini di esplodono in faccia e i suoni ti entrano dentro.

Un film per i fan, gli appassionati, i musicofili di vario genere, i nostalgici, i curiosi. Un film per chi, come me, ha amato e ama la bella Marlene. Un film che non so quando sara' disponibile al grande pubblico, ma quando arrivera' sara' un bel regalo per tutti.

martedì 22 dicembre 2015

Julia Holter - Have you in my wilderness [2015]

Su uno sfondo color panna e' centrata una foto in bianco e nero: una parete bianchissima, a destra, in alto, un quadretto con su una scritta illeggibile, in basso uno specchio in cui si riflette una finestra con una piantina invasata sul davanzale; a sinistra la Holter e' appoggiata mollemente alla parete, una mano a spostarsi i capelli da davanti al viso, lo sguardo rivolto verso il basso con aria malinconica.
In alto, sopra la foto, il suo nome; in basso, sotto la foto, il nome dell'album. Appena sotto, piccolo ma visibile, il nome della casa discografica.

Play.

Che incredibile sorpresa mi ha riservato questo inizio-inverno: ecco qualcosa che non avrei potuto prevedere, ecco finalmente uno stimolo musical-intellettuale come non ne ricevevo da tempo.
Ho nelle orecchie una novita': una piacevolissima scoperta (viene dallo spacciatore, siamo chiaramente in territorio a lui affine) che mi pare estremamente difficile da catalogare.

Ritmi zoppi accompagnano le armonie delicate, eleganti e mai banali di questo bell'album.
Ritmi zoppi, non ci si puo' danzare sopra, la mente non vi si puo' adagiare a riposo e certamente non si puo' camminare a ritmo, si rischia di inciampare e farsi male.
Ritmi zoppi, cambi improvvisi eppure stranamente fluidi.
Archi, clavicembali, fiati, strumenti leggeri e persistenti.
E la voce della Holter che non ha tecnicamente niente di speciale, niente che colpisca nel bene o nel male, ma l'intensita' e' quella giusta e ti strappa un sorriso.
Forse un po' intellettual-snob, ma non poi cosi' tanto.

Cos'e' mai?
Non una carezza, non un calcio sulle gengive, non un abbraccio.

Il sentimento che mi arriva da quest'album e' quello di una strana intimita' distorta e impossibile da catalogare, una dolcezza contorta eppure deliziosa, un calore scomodo, una familiarita' di cui non si puo' parlare senza trovarla in un qualche modo ridicola.
E' sentirsi con un amico apposta per litigare su una questione di lana caprina, anzi, trovare una questione di lana caprina su cui poter litigare, scoppiando a ridere prima ancora di salutarsi, semplificando cosi', con una risata, la difficilissima fase dei saluti.
E' rivedersi dopo sei mesi e non riuscire ad abbracciarsi.
E' il mare d'inverno, il cui odore il Lago, per quanto grande, non potra' mai riprodurre, che mi richiama verso casa con voce di sirena.


Lista delle tracce:

Feel you
Silhouette
How long?
Lucette stranded on the Island
Sea calls me home
Night song
Everytime boots
Betsy on the roof
Vasquez
Have you in my wilderness