domenica 3 maggio 2015

The Jesus and Mary Chain @ The Phoenix Centre Theater - Toronto

1 maggio 2015

Per chi non lo sapesse, quest'anno si festeggia il trentesimo compleanno di Psychocandy, pietra miliare imprescindibile: un pezzo di storia si ferma a meno di 70km da casa mia e per raggiungerlo mi basta un comodo pullman (la cui fermata e' a cento metri dalla mia porta) e una piacevole passeggiata in citta' nel sole della primavera canadese che (posso dirlo?) sembra finalmente arrivata... Qui non e' la festa dei lavoratori, da queste parte il "labour day" si festeggia il primo lunedi' di settembre e il concertone (per fortuna) e' solo un'eco: eppure anche io questa sera sono a un concerto, seppure (ri-per fortuna) di tutt'altro calibro.

Faccio parte di un gruppo di persone eterogeneo piu' o meno improvvisato per l'occasione: un'indiana (nel senso dell'India) un cinese e un'arabo, ma quest'ultimo lo perderemo di vista entrando e non lo ritroveremo piu'. Tutti rigorosamente canadesi, loro, con nomi anglofoni tanto per capirci. E poi ci sono io.
L'indiana e' la piu' scatenata e aggressiva: entrando nello spazio-concerti si dirige con sicurezza verso il lato sinistro del palco guadagnando per tutti una dignitosissima settima/ottava fila.
Siamo dentro, dunque. Sul palco il gruppo spalla, i Gateway Drugs: ci metto circa 30 secondi a capire che sono nordamericani. Avranno a malapena 25 anni e la line-up e' decisamente standard per il genere: batterista a torso nudo, bassista timido (l'unico senza microfono), chitarrista-maschio con occhialoni da sole vintage, chitarrista-femmina con calze nere bucate, cerone d'ordinanza, vestitino nero girofica, scollatura assassina e peso complessivo (senza chitarra) non meno di 100kg.
Fanno un bel punk-rock potente e coinvolgente, il pubblico li ascolta con gusto; non bisogna mai sottovalutare la fierezza e il dramma di essere il gruppo spalla, specie se di un'icona, perche' lo sai che stasera nessuno e' li' per te e anzi, non vedono l'ora che te ne vai, eppure hai una grande occasione per farti sentire e te la devi giocare al massimo: beh, devo dire che i Gateway Drugs se la giocano piuttosto bene.
Mi guardo intorno. Sono davvero poche le persone piu' giovani di me (ma in quest'occasione davvero mi avrebbe sorpresa il contrario) mentre la maggior parte del pubblico dev'essere stata poco piu' che adolescente all'uscita di Psychocandy, il che significa che i Gateway Drugs stanno suonando davanti a gente che ha praticamente l'eta' dei loro genitori, forse poco meno. E una domanda cattivissima mi attraversa il cervello come un fulmine: che senso ha il punk se mamma e papa' ti vengono a sentire e scuotono la testa con non meno gusto dei tuoi compagni di classe? La musica dei Gateway Drugs infondo, a voler essere gentili, era vecchia quando Cobain ha scritto "Smells like teen spirit"... Provo immediatamente un misto di tristezza e pieta' nei confronti di questi ragazzi: sono bravi, per carita', e la loro musica rientra in canoni che soddisfano il mio orecchio, ma appunto sono canoni. Bah...

Pausa.
I ragazzetti escono dal palco e vi salgono i roadies a sistemare l'attrezzatura.
La mia compagna di avventure indiana si rivolge a me e con fare deciso mi dice una cosa tipo "non lasciare che nessun gigante si infili qui davanti a noi, mi raccomando!". Io un po' perplessa le domando come potrei impedirlo e lei, senza battere ciglio, risponde "gli dai una spinta, una gomitata... fa' un po' te!". Intimorita le spiego che non ne sarei capace e le racconto la disavventura col ragazzone-punk al concerto dei Placebo: "wow, sei davvero troppo perbene!". Alzo le spalle e sorrido con rassegnazione: durante il concerto in effetti la vedro' all'opera un paio di volte.. che gomito possente, signori!
In tutto questo, con i roadies ancora sul palco, le apposite macchine hanno cominciato a sparare copioso fumo sul palco: quando finalmente i roadies escono e cala la musica di sottofondo, praticamente non si vede piu' niente.

Ed ecco apparire i J&MC: gli strumentisti si posizionano in un'unica linea perfettamente orizzontale, da sinistra a destra Crozer, King, Young e Reid (W) mentre Reid (J) si posiziona piu' avanti. Salutano.
Reid (J), al microfono, mette subito le mani avanti: "Stasera siamo qui per Psychocandy: adesso suoneremo un primo set-up breve di brani che non sono su Psychocandy anche se in un qualche modo sono correlati, poi verra' la seconda parte del concerto con Psychocandy".
Certo e' strano: lo sappiamo tutti che questo e' il concerto del trentennale di Psychocandy... mah.

Finalmente cominciano a suonare e il primo brano e' "April skies" seguito a ruota da "Head on": tanto per mettere le cose in chiaro. Subito dopo e' il turno di "Some candy talking" che infondo io considero (erroneamente, lo so) un brano di Psychocandy: la folla scalpita, io pure. Il fumo sul palco e' una nebbia spessa e opprimente, le luci si muovono in modo tale che Crozer, King, Young e Reid (W) non sono che delle sagome scure sullo sfondo mentre Reid (J) si riesce a vedere, ma infondo non cosi' tanto.
Dio quanto sono inglesi!
L'effetto complessivo e' di un'eleganza imbarazzante e mi ritrovo a contravvenire ogni mio principio morale, cacciare dalla borsa il malefico oggetto e scattare una serie di foto in sequenza nella speranza che almeno in una si riesca a catturare l'impressione visiva: eccovi le migliori.


Seguono poi "Psycho Candy" (la canzone) e "Up too high", feedback infinito, giochi di luce allucinogeni: uno stordimento audiovisivo che associo mentalmente all'effetto di una droga potente (non che ne abbia esperienza personale, ma 'Trainspotting' l'abbiamo visto tutti). Meraviglia.
Chiudono la prima parte con "Reverence" e "Upside down" in un mare di nebbia, luci, feedback ed energia. Uscendo Reid (J) fa cenno con la mano di aspettare, come a dire "state buoni che torniamo subito".

Ri-pausa.
Mi guardo intorno e mi accorgo che gli equilibri sono cambiati: dato che a differenza della mia compagna indiana io non sono capace di dare gomitate ai prepotenti, mi sono lentamente spostata per poter continuare a vedere il palco, facendo pero' attenzione a non disturbare la visuale di quelli dietro di me. Mi ritrovero' a doverlo fare ancora durante la seconda parte del concerto, ma alla fine (a quanto pare) essere una persona per bene paghera', perche' saro' piu' avanti, piu' centrale, e con visuale perfetta.

Parte un video in bianco e nero, proiettato sul fondo del palco: pare un telegiornale d'epoca ma nel caos non riesco a decifrarne le parole. L'immagine si distorce, come se stesse bruciando (letteralmente) la pellicola su cui e' impressa.
Buio.
All'improvviso la copertina di Psychocandy viene proiettata sullo sfondo, entra Young, si siede dietro la batteria e comincia a picchiare.
Tum tu-tum sch, tum tu-tum sch, tum tu-tum sch, tum tu-tum sch.
Entrano gli strumentisti, lentamente imbracciano basso e chitarre come se stessero per andare in guerra e quelli fossero i loro fucili: la nebbia s'e' diradata, i loro volti sono serissimi. Entra Reid (J) accompagnato dalla tettona dei Gateway Drugs per la voce femminile: la guardo attentamente e la sua emozione, emanata chiaramente dal suo corpaccione che trema, mi arriva fortissima... essere li', con i J&MC, accanto a Reid (J) a cantare con lui "Just like honey"... chi non vorrebbe essere al suo posto?, chi non tremerebbe?
Finito il brano Reid (J) bacia la ragazza su una guancia e lei esce dal palco, ancora tremante.
Da qui in poi e' Psychocandy cosi' come lo conosciamo, cosi' come lo hanno pensato trent'anni fa, in quell'ordine perfetto, con quell'impatto potente, anzi dippiu': perche' se il disco emoziona e fa vibrare, la potenza di feedback del live e' un muro sonoro difficile da immaginare e/o descrivere anche per quelli che il disco lo conoscono a memoria.
Gli effetti di luci non sono piu' quelli della prima parte, non e' un mare di nebbia, i volti dei musicisti adesso si vedono, vengono proiettate immagini sul fondo... scelta forse meno elegante ma perfettamente adatta, e comunque l'effetto complessivo e' ipnotico.

Ascoltare Psychocandy dal vivo nella sua interezza stordisce e fa riflettere: dio quanto sono inglesi! (e due), ecco l'anima della vecchia Europa, con le sue sovrastrutture, la sua pesantezza burocratica, il suo prendersi cosi' drammaticamente sul serio... eccola, e' tutta qui. Positivo o negativo che sia, una musica del genere non poteva uscire dal nordamerica, assolutamente fuori discussione.
Le chitarre di Crozer e Reid (W) sono veri e propri lanciafiamme, producono suoni allucinogeni e corrosivi che lasciano senza fiato, il basso di King e' l'unica cosa che dia un minimo di struttura armonica in questo marasma, la batteria di Young e' un metronomo indispensabile.

I 38:55 minuti dell'album diventano quasi quarantacinque, tra divagazioni soniche e code di vario genere, ma sono destinati a finire troppo presto: sulle ultime note (se cosi' le si vuol chiamare) di "It's so hard" viene proiettata in triplice copia verticale sullo sfondo la scritta 'game over', bianco su nero, in caratteri da videogioco anni ottanta (ov cors). Un cenno con la mano mentre escono accompagnati dalla lunga eco di un amplificatore lasciato a fischiare.
Dopo un po' entra un roadie e con un piede schiaccia un pedale: silenzio improvviso, luci sul palco spente, luci sul pubblico accese.
Fine?, davvero?, cosi' presto?
Si'.

Sul pullman verso casa avro' ancora le orecchie che fischiano e la mente ebbra.
La notte canadese mi guarda silenziosa dal finestrino.
Buio.

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