domenica 24 maggio 2015

Sufjan Stevens - Carrie & Lowell [2015]

Una foto a colori rovinata, usurata dal tempo e dal tocco di troppe mani: un uomo e una donna sui trent'anni, forse meno, persone vere sedute nel salotto di casa, lui ha una mano sulla spalla di lei. La parete sullo sfondo e' di un verde bluastro imbarazzante e i mobili sono sufficientemente sfocati da non essere davvero riconoscibili: forse un vecchio televisore fa capolino da dietro la spalla di lei. Il nome dell'autore e' in alto, il titolo dell'album in basso, entrambi in lettere chiare e pesanti, bianchissime.

Play.

Cinque anni?, davvero sono passati cinque anni da "The age of Adz"? Si', davvero, e tanta acqua e passata sotto i ponti, cosi' in fretta che era facile non accorgersene, ma poi Sufjan Stevens pubblica un nuovo album e te ne accorgi: cinque anni, eccoli qua.

Il primo ascolto e' avvenuto in bici in riva al lago Ontario, un tardo pomeriggio di questa primavera canadese esplosiva: profumo di fiori nell'aria, cielo azzurrissimo, il sole che inizia ad abbassarsi e si riflette sulla superficie dell'acqua, una leggera brezza che mi viene incontro mentre pedalo, pace. Per ragioni che non sto a spiegare ho voluto scegliere con cura il momento e penso sia stata una scelta azzeccata.

Abbandonati gli arrangiamenti magniloquenti e le composizioni prolisse, l'ormai maturo Stevens si affida esclusivamente a una chitarra classica appena arpeggiata, un banjo e una chitarra acustica (forse) e a tratti un pianoforte ovattato, regalandoci un album delicato e carezzevole, intimo, intenso.
Cosi' diretto da fare male.
Le musiche, i dolcissimi arpeggi, fanno da perfetto tappeto alla voce carezzevole di Stevens mentre si mette a nudo di fronte all'ascoltatore, mostrando tutta la sua debolezza con onesta' destabilizzante: "I am a man with a hart that offend with its lonely and greedy demands" dichiara pacificamente, quasi con noncuranza, e tu li' a bocca aperta, colpito violentemente da qualche parte infondo allo stomaco, pervaso dai sensi di colpa per non aver capito come questa semplice verita' si adatti a tutti, anche e soprattutto a chi sembra voler fuggire.

Basta una brevissima ricerca via mr. Google per scoprire che Carrie era la madre di Stevens, bipolare e schizofrenica, dedita a uso di sostanze stupefacenti da cui era dipendente, morta di cancro allo stomaco tre anni fa; Lowell invece e' stato il suo patrigno per cinque anni, quando Stevens era un bambino: ascoltando l'album deduco che Lowell deve essere stato una figura di riferimento importante, il simbolo di un breve periodo sereno in un'infanzia altrimenti devastata.

E' un album su una madre che non c'e', ma non da oggi, non perche' e' morta, anzi, forse allora c'era anche meno: la presenza fisica a volte non e' che una maggior solitudine. E' un album su un amore dal figlio alla madre distante, un sentimento che non ha mai avuto la forza di esplicitarsi e che forse anche per questo non ha fatto che accrescersi, nell'assenza e nel desiderio di un gesto dolce di qualsiasi tipo, una carezza, un abbraccio. E' un album su un padre che non e' propriamente un padre ma in un qualche senso e' molto di piu': e' la colonna portante della felicita' in un mondo confuso.
Stevens si spoglia con naturalezza e dolore, e la sua nudita' fa tremare.
E ovviamente ci sono i continui riferimenti biblici tipici della poetica del nostro, quelle immagini evocative che sono la sua ancora oggi che e' un adulto. A ciascuno il suo.

Eppure forse c'e' anche qualcosa che Mr. Stevens non ha voluto dire ad alta voce a giornalisti e recensori vari e per questo nessuno ne parla, perche' una cosa come questa, proprio per sua natura, non si puo' confessare. C'e' un amica che e' e rimarra' un'amica, qualcuno a cui lui vuol bene "more than the world can contain". E' un affetto che in alcuni momenti e' facile scambiare per qualcosa di diverso ma no, e' un'amica, e in ogni caso e' bene che resti un'amica, per tante di quelle ragioni che non ha neanche senso mettersi a elencarle: dopotutto "a friend is a friend and we all know how this will end". Una persona cosi' importante, un'amica cosi', non si puo' rischiare di perderla per nessun motivo al mondo: la cosa migliore e' concludere come fa Stevens, chiedendo semplicemente di rimanere l'uno nella vita dell'altra, esattamente cosi' com'e', rimanendo lontani quel tanto che basta per non commettere errori.
Ma forse tutto questo ce lo sento solo io.

Lista delle tracce

Death with dignity
Should have known better
All of me wants all of you
Drawn to the blood
Eugene
Fourth of July
The only thing
Carrie & Lowell
John my beloved
No Shade In The Shadow Of The Cross
Blue Bucket Of Gold

giovedì 21 maggio 2015

Progressi


(Avere un'idea delle leggi di Newton sa rendersi utile anche nei contesti piu' inaspettati...)

domenica 17 maggio 2015

Primal Scream @ Danforth Music Hall - Toronto

15 maggio 2015

Esattamente a quindici giorni di distanza dai The Jesus and Mary Chain anche i Primal Scream fanno un salto in citta', (anzi, in Citta') e cosi' nel giro di due settimane ho potuto vedere in faccia tutti gli autori di Psychocandy. E devo dire che in effetti anche solo a guardarli in faccia si capisce perche' Bobby Gillespie abbia abbandonato le pelli dei fratelli Reid per dedicarsi anima e corpo all'avventura da cantante. Ma andiamo con ordine.

Questa volta faccio parte di un gruppo di sole donne, io e altre due: una di loro ha almeno cinque anni meno di me, l'altra almeno venti di piu', ma mi sento molto piu' a mio agio con loro che con il gruppo improvvisato per  J&MC, a n-esima dimostrazione (come se ce ne fosse ancora bisogno) del fatto che l'anagrafe a volte e' poco piu' che un fatto burocratico.

Entriamo nello spazio concerti e questa volta sono io a guidare il gruppo in direzione del palco: la folla non e' ancora particolarmente ammassata e guadagno senza fatica la terza fila, proprio davanti a Innes. Il gruppo spalla ha gia' suonato (saranno almeno le 20:30... ah gli orari nordamericani... il mio pensiero vola con un sorriso a Padova) e i tecnici stanno gia' sistemando il palco per gli scozzesi: scenografia scarna se non inesistente, due o tre Marshall davanti a me, la batteria al centro del palco, l'ampli del basso laggiu' sulla destra, fumo in quantita' standard, anzi, oserei dire medio-bassa: la musica di sottofondo e' un allegro rockablilly che mette gia' dell'umore giusto.

Presto tutto tace e su un urlo primordiale entrano i quattro e attaccano subito con "2013": ottima e potente apertura per un concerto che promette grandi cose. Da qui in avanti e' tutta un'esplosione, una danza estatica, un saltellare battendo le mani a ritmo: noi, Gillespie, noi. Si passa da "Can't go back" a "Jailbird", poi "Accelerator" seguita da "Kill all hippies". Disco-punk senza tregua, non ci si puo' fermare, si continua con "Burning wheel" e poi "Shoot speed". No, non ce la faccio piu': vabbeh che ho smesso di fumare, corro, mi muovo esclusivamente in bici e tiro calci tre volte a settimana, ma questo e' troppo. E lo capiscono anche loro tant'e' che spezzano con "Damaged", ma poi si ricomincia con versioni ultra-potenziate di "Higher than the sun" e "Autobahn 66".
Gillespie salta qua e la', braccia tese verso il cielo e verso il pubblico, Innes suona con una naturalezza imbarazzante, Duffy c'e', non lo vedo ma si sente eccome, Mooney e' un metronomo instancabile e Butler laggiu' pare sexy perfino a me.
E balliamo tutti, balliamo, saltiamo, battiamo le mani, sudiamo senza posa. E loro continuano a fendere l'aria con "Swastika eyes" e "Country girl", per finire con "Movin' on up", che e' tutta un urlo, un salto, un'emozione.

Pausa.
Ci voleva proprio la pausa adesso: per fortuna sono allenata, altrimenti temo che domani non avrei un solo muscolo a posto. Nei pochi minuti a disposizione mi viene naturale tentare un confronto con i J&MC; estremamente inglesi anche questi, ma in modo profondamente diverso: la' dove quelli sono intellettuali e ricercati, rivolgendo il loro caos verso l'interno piu' profondo della loro mente, questi sono energia pura e incarnano perfettamente lo spirito punk tradotto in linguaggio moderno. No, e' ovvio che i loro percorsi artistici dovevano separarsi.

Pochi minuti, dicevo, e si riparte gentilmente con "I'm loosing more", quel tanto di respiro che serve prima di caricare "Loaded" e spararcela contro. Poi un omaggio e un regalo: una splendida cover disco-punk di "Cold turkey", un omaggio riverente a quella volta in cui fu regalata al pubblico, proprio in questa incredibile citta', anzi, Citta'.
Il gran finale e' quindi lasciato a "Rocks", in un susseguirsi di salti e battiti di mani e sudore. Tripudio: Innes lancia una manciata di plettri verso di noi e la piu' giovane delle mie compagne riesce ad agguantarne uno (Fender medio). Mentre i tecnici smontano il palco mi avvicino per guardare meglio e rimedio anch'io il mio trofeo.



Sono stanca morta quando finalmente salgo sul pullman e riprendo la strada di casa, bastano pochi metri di autostrada per farmi addormentare.

martedì 12 maggio 2015

Playlist del giorno

01. Dog on wheels [Belle and Sebastian]
02. Il solitario [Marlene Kuntz]
03. Lonely press play [D. Albarn]
04. Lovesong [The Cure]
05. Wish you were here [Pink Floyd]
06. Afraid of nothing [S. Van Etten]
07. John my beloved [S. Stevens]
08. Trouble [Coldplay]
09. Nel silenzio [P. Benvegnu']
10. Sun's Arising (A Koan, an exit) [Phosphorescent]

lunedì 11 maggio 2015

Persone vere

Va bene, chiedo perdono, ho esagerato per amor di prosa: in effetti in quella serata intorno al fuoco non c'erano solo fricchettoni miliardari ma anche persone che sembravano "persone vere" e con una di queste, una donna un poco piu' grande di me, avevo scambiato qualche parola piacevole prima che il freddo avesse la meglio su di me costringendomi in casa e innescando la serie di pensieri che avevano finito per farmi venir voglia di tornare a casa.
Successivamente sono rimasta in contatto con la tipa in questione e l'ho risentita un paio di volte: una volta siamo uscite per un caffe', un'altra volevamo andare a fare un'escursione che pero' e' saltata all'ultimo minuto. Venerdi' sera mia ha invitata a casa sua per una "girl night", di nuovo intorno al fuoco in giardino. Accetto volentieri: il nordamerica ha ancora molto da insegnarmi e voglio imparare piu' che posso.

Anche questa volta purtroppo mi presento un poco in ritardo, anche questa volta ero tornata da Toronto a un'ora improbabile: la differenza pero' e' che questa volta il posto non e' lontano e mi basta un quarto d'ora in bici per essere li'.
Mi ritrovo in una zona di Hamilton non esattamente di ricchi, anzi, viste da fuori le case sono trascurate e non particolarmente grandi (per gli standard nordamericani ov cors). Case vere per persone vere. Bene.
Le convitate sono tutte dentro, sedute intorno a un tavolo: un paio di loro sono visibilmente piu' giovani di me ma le altre, tra cui la padrona di casa, sono (altrettanto visibilmente) piu' grandi e hanno deciso che tutto sommato di notte, o comunque questa notte, si sta ancora meglio in ambiente chiuso. Scelta che mi strappa un sorriso d'approvazione, soprattutto pensando alla serata dai miliardari.
Mi unisco alla comitiva: si chiacchiera, si beve vino, si mangiano vedrurine crude e tacos con salsa ai formaggi. La cucina e' a gas e la cosa mi scalda il cuore: non ne vedevo una da Natale.
Dell'erba ricreativa mi viene presto offerta come un calumet della pace, senza tabacco aggiunto. La accetto per dovere sociale e mi accorgo subito che tre tiri mi saranno piu' che sufficienti per l'intera serata: loro hanno una resistenza diversa a cui forse un tempo sarei stata abituata ma che adesso (ebbene si', e lo dico con un certo orgoglio) ho evidentemente perduto.

Ci sono varie bottiglie di vino aperte sul tavolo e mi viene detto di servirmi a mio gusto: scelgo un onesto riesling della regione del Niagara.

Una doverosa parentesi.
Non ho mai seguito un corso da sommelier ma chi mi conosce sa che sono in grado riconoscere un vino buono: ebbene, i vini della regione del Niagara, con mia enorme sorpresa iniziale, sono buoni. Il gelo invernale non deve trarre in inganno: a maggio esplode letteralmente la primavera, a luglio (dicono) si possono sfiorare i trenta gradi, a settembre si sta ancora bene... questa e' una terra di grandi sbalzi climatici ma insomma, l'uva cresce d'estate e qui l'estate esiste. Inoltre la regione del Niagara e' parecchio umida e l'aria ora profuma di fiori d'acero, cosa che ovviamente da un certo carattere peculiare al vino.
Conclusione: quando posso scelgo i vini delle aziende locali e me li godo.

Verso dunque un po' di questo riesling nel mio bicchiere, sorrido alla padrona di casa e dico che mi sono scoperta fan dei vini locali.
Ci sono dei cartoncini sul tavolo, sono dei buoni da 14 dollari per un assaggio "per due" a una azienda vinicola del Niagara. Il prezzo mi colpisce: sul momento mi pare basso (per esperienza considero una bottiglia da 14 dollari come una una bottiglia di vino di medio interesse) ma poi penso che se uno va direttamente all'azienda vinicola il prezzo debba essere piu' contenuto: sarei curiosa di fare un giro per aziende vinicole del Niagara ora che finalmente fa abbastanza caldo. Il commento di una delle altre pero' mi colpisce con forza molto maggiore: "Ti pare che uno deve spendere 14 dollari per del vino?, lo fanno giusto i fighetti... dove lavoro io posso bere vino gratis ma non ho un preferito: bevo praticamente qualsiasi cosa e anzi, tipicamente meno costa e piu' mi piace...". Ridono tutte con approvazione.
Mi si stringe lo stomaco: negli ultimi anni raramente ho speso meno di quindici euro per una bottiglia di vino... mio dio, sono una fighetta!, il senso di colpa si abbatte su di me come una scure.
Le altre si fanno curiose, versano il riesling che avevo lodato in un bicchiere e se lo passano: il commento piu' generoso e' "che porcheria!" e mi sento malissimo.
La padrona di casa si allontana un attimo e cala un silenzio pesante come piombo fuso. L'elefante nella stanza e' che io ho un dottorato di ricerca, loro e' possibile che non siano neanche andate al college (qui l'universita' e' per gli intellettuali, il college per i lavoratori); io insegno a McMaster, loro versano caffe' da TimHorton (lo Starbucks canadese, ma col "feeling" piu' simile a quello di un McDonalds); io vengo da Roma, ho visto il mondo e continuero' a girarlo, il loro orizzonte e' Hamilton, una citta' provinciale, squallida, una citta' di operai, drogati e barboni.
Mi sento malissimo, schifosamente in imbarazzo per essere quella che sono.

Per fortuna la padrona di casa e' molto brava a rianimare la conversazione: io mi chiudo in una specie di mutismo imbarazzato.

Dopo un po' si uniscono a noi due ragazze giovanissime, avranno si' e no vent'anni: vivono anche loro con la padrona di casa anche se non mi e' chiaro a che titolo. Una di loro porta un rose' che viene aperto, versato e ampiamente lodato.

Altra parentesi: devo ancora trovare un rose' degno di essere bevuto.

Viene versato dunque un bicchiere di questo rose' e fatto girare: tutte ne sono entusiaste e io capisco che devo stare attenta, che questa e' una prova difficile: saro' l'ultima a bere e so gia' dai loro volti che non mi piacera' (ecco qua, disgustata di me stessa offro in sacrificio a voi tutta la mia arroganza), ma mostrare il mio disgusto sarebbe come innalzare la grande muraglia cinese tra me e loro.
Bevo.
Succo d'uva zuccherato e alcolico: raramente ho bevuto qualcosa di piu' disgustoso.
Per fortuna l'avevo immaginato e quindi sono preparata.
Sorrido e bevo un secondo sorso: "ottimo!", dico mentendo spudoratamente. Cala la tensione.
Per fortuna nel mio bicchiere c'e' ancora del riesling, che a questo punto non oserei versarmi ma ho bisogno di cambiare il sapore che ho in bocca; aspetto un minuto o due prima di avventarmi sul riesling cercando di non dare nell'occhio: l'attesa mi pare infinita.

L'ultima arrivata mi indica una bottiglia e il mio bicchiere: "e' fatto per essere messo qui!". Sul momento non capisco. "Scusa?". "No, dico, dovresti versarlo qui...". Continuo a non capire "Ho ancora del vino qui dentro...". "Ah scusa, l'hai gia' fatto... e' che non vedevo le bollicine!". Sono sempre piu' confusa. "Eh?, che bollicine?". Alla fine mi viene spiegato che nella seconda bottiglia c'e' un succo d'uva frizzante e analcolico, verosimilmente dolciastro, che "serve" per rendere frizzante e dolciastro ogni vino. Non riesco ad immaginare niente di piu' disgustoso: giusto in nordamerica potevano pensare una cosa del genere. Prendo in mano la bottiglia e la studio attentamente. "Product of Italy" recita a grandi lettere, ma viene indicato l'importatore canadese, non il produttore.
Dio santissimo.

Sono un mostro di arroganza, non posso farci niente.
Cosa ci facevano persone cosi' con i fricchettoni miliardari?
Questa sera discorsi sono diversi; ne sono altrettanto lontana, ma il sentimento piu' forte e' la pieta', profonda pieta', disgustosa pieta': la nauseante e sterile pieta' di una persona arrogante.

Queste donne, tutte loro, sono state madri a 17 anni: il solo pensiero mi mette i brividi.
Ad un certo punto una di loro mi fa capire come il messaggio che passa da tutte le parti (dagli show televisivi ai corsi a scuola) e' la bellezza di essere madre, messaggio che viene recepito senza filtro da adolescenti i cui corpi e cervelli sono imbottiti di zucchero. Le vogliono stupide, vogliono che sfornino bambini a cui non sara' permesso studiare, non avranno i soldi per farlo, saranno operai, drogati, barboni. Saranno pedine e all'occorrenza potranno essere usati come soldati.
Tutto questo mi e' chiarissimo, loro non sembrano vederlo.
E qui siamo in Canada, non negli Stati Uniti.

Una di loro a un certo punto domanda ad alta voce (non ricordo piu' seguendo quale filo logico) quale sia il motivo di imparare l'analisi grammaticale "tanto puo' farlo un computer per me: perche' devo sbattermi?"
Cristo.
Non posso trattenermi.
"Perche' cosi' impari a pensare: impari la differenza tra il presente e il passato, tra l'esistenza e la possibilita', tra chi compie un'azione e chi la subisce... tutto questo ti permette di avere spirito critico, di pensare con la tua testa e compiere scelte indipendenti".
Non ci avevano mai pensato.
In Europa, soprattutto in Italia, chi sceglie di non studiare lo fa (ancora) tutto sommato sapendo a cosa va incontro; qui non e' una scelta: se non hai i soldi davvero non hai alternative.
Fine.
E ti nutrirai da McDonalds, le tue bevande avranno uno strano colore fosforescente e l'ingrediente principale di ogni cosa che il tuo corpo assumera' sara' lo zucchero: ti verra' il diabete di tipo b e porterai sulla tua pelle il segno di ogni sostanza chimica assunta.
E crederai, perche' questo e' quel che ti viene detto, che l'assunzione di proteine sia una panacea.
Dovreste vederli in faccia per capirne tutta la miseria senza scampo.
La provincia nordamericana e' miseria, e' morte.
E qui siamo in Canada, non negli Stati Uniti.

A suo tempo avevo preso Idiocracy per un film demenziale buono per una serata alcolica e invece scopro oggi che e' una ferocissima critica a una societa' davvero prossima all'esistenza.
E l'americanizzazione dell'Europa mi ghiaccia il sangue nelle vene.

Per fortuna a un certo punto viene tirata fuori una chitarra: nessuna di loro sa suonare ma una vuol prendere lezioni... Vorrei essere il mio amico C.(P.)M., quello che se gli dai in mano una chitarra ti suona tutte le canzoni del mondo, dai grandi successi intercontinentali ai b-side del gruppetto che non e' mai uscito dal paesello del nord della Spagna, l'amico che bisogna avere in ogni serata alcolica al Circo Massimo. Beh, in effetti pur non arrivando ai livelli tecnici del mio amico posso anch'io imbastire un rozzo accompagnamento per una canzone se la conosco e non e' troppo complicata, e di solito i grandi successi non sono complicati (ed ecco di nuovo tutta la mia arroganza). Far cantare un gruppo di persone cambia ogni equilibrio, ci si dimentica di tutte le differenze, si mettono da parte le barriere linguistiche e culturali, si canta e si ride: sia lode eterna al potere infinito della musica.

La padrona mi fa fare il giro completo della casa: l'insieme emana un senso di calore umano incredibile, quasi mi commuovo.
Poi scendiamo nel sottoscala dove vive suo figlio di ventitre' anni (lei ne ha quaranta).
Abbondante spazio, una collezione di bong, vari barattoli pieni di erba ricreativa sul tavolo.
Fa un certo effetto pensare che ci sia tutta questa apertura tra madre e figlio ma pensandoci attentamente mi rendo conto che tutto sommato e' meglio cosi'.

Ho la testa piena di pensieri mentre pedalo nella notte (finalmente) tiepida, senza fretta, verso casa.

domenica 3 maggio 2015

The Jesus and Mary Chain @ The Phoenix Centre Theater - Toronto

1 maggio 2015

Per chi non lo sapesse, quest'anno si festeggia il trentesimo compleanno di Psychocandy, pietra miliare imprescindibile: un pezzo di storia si ferma a meno di 70km da casa mia e per raggiungerlo mi basta un comodo pullman (la cui fermata e' a cento metri dalla mia porta) e una piacevole passeggiata in citta' nel sole della primavera canadese che (posso dirlo?) sembra finalmente arrivata... Qui non e' la festa dei lavoratori, da queste parte il "labour day" si festeggia il primo lunedi' di settembre e il concertone (per fortuna) e' solo un'eco: eppure anche io questa sera sono a un concerto, seppure (ri-per fortuna) di tutt'altro calibro.

Faccio parte di un gruppo di persone eterogeneo piu' o meno improvvisato per l'occasione: un'indiana (nel senso dell'India) un cinese e un'arabo, ma quest'ultimo lo perderemo di vista entrando e non lo ritroveremo piu'. Tutti rigorosamente canadesi, loro, con nomi anglofoni tanto per capirci. E poi ci sono io.
L'indiana e' la piu' scatenata e aggressiva: entrando nello spazio-concerti si dirige con sicurezza verso il lato sinistro del palco guadagnando per tutti una dignitosissima settima/ottava fila.
Siamo dentro, dunque. Sul palco il gruppo spalla, i Gateway Drugs: ci metto circa 30 secondi a capire che sono nordamericani. Avranno a malapena 25 anni e la line-up e' decisamente standard per il genere: batterista a torso nudo, bassista timido (l'unico senza microfono), chitarrista-maschio con occhialoni da sole vintage, chitarrista-femmina con calze nere bucate, cerone d'ordinanza, vestitino nero girofica, scollatura assassina e peso complessivo (senza chitarra) non meno di 100kg.
Fanno un bel punk-rock potente e coinvolgente, il pubblico li ascolta con gusto; non bisogna mai sottovalutare la fierezza e il dramma di essere il gruppo spalla, specie se di un'icona, perche' lo sai che stasera nessuno e' li' per te e anzi, non vedono l'ora che te ne vai, eppure hai una grande occasione per farti sentire e te la devi giocare al massimo: beh, devo dire che i Gateway Drugs se la giocano piuttosto bene.
Mi guardo intorno. Sono davvero poche le persone piu' giovani di me (ma in quest'occasione davvero mi avrebbe sorpresa il contrario) mentre la maggior parte del pubblico dev'essere stata poco piu' che adolescente all'uscita di Psychocandy, il che significa che i Gateway Drugs stanno suonando davanti a gente che ha praticamente l'eta' dei loro genitori, forse poco meno. E una domanda cattivissima mi attraversa il cervello come un fulmine: che senso ha il punk se mamma e papa' ti vengono a sentire e scuotono la testa con non meno gusto dei tuoi compagni di classe? La musica dei Gateway Drugs infondo, a voler essere gentili, era vecchia quando Cobain ha scritto "Smells like teen spirit"... Provo immediatamente un misto di tristezza e pieta' nei confronti di questi ragazzi: sono bravi, per carita', e la loro musica rientra in canoni che soddisfano il mio orecchio, ma appunto sono canoni. Bah...

Pausa.
I ragazzetti escono dal palco e vi salgono i roadies a sistemare l'attrezzatura.
La mia compagna di avventure indiana si rivolge a me e con fare deciso mi dice una cosa tipo "non lasciare che nessun gigante si infili qui davanti a noi, mi raccomando!". Io un po' perplessa le domando come potrei impedirlo e lei, senza battere ciglio, risponde "gli dai una spinta, una gomitata... fa' un po' te!". Intimorita le spiego che non ne sarei capace e le racconto la disavventura col ragazzone-punk al concerto dei Placebo: "wow, sei davvero troppo perbene!". Alzo le spalle e sorrido con rassegnazione: durante il concerto in effetti la vedro' all'opera un paio di volte.. che gomito possente, signori!
In tutto questo, con i roadies ancora sul palco, le apposite macchine hanno cominciato a sparare copioso fumo sul palco: quando finalmente i roadies escono e cala la musica di sottofondo, praticamente non si vede piu' niente.

Ed ecco apparire i J&MC: gli strumentisti si posizionano in un'unica linea perfettamente orizzontale, da sinistra a destra Crozer, King, Young e Reid (W) mentre Reid (J) si posiziona piu' avanti. Salutano.
Reid (J), al microfono, mette subito le mani avanti: "Stasera siamo qui per Psychocandy: adesso suoneremo un primo set-up breve di brani che non sono su Psychocandy anche se in un qualche modo sono correlati, poi verra' la seconda parte del concerto con Psychocandy".
Certo e' strano: lo sappiamo tutti che questo e' il concerto del trentennale di Psychocandy... mah.

Finalmente cominciano a suonare e il primo brano e' "April skies" seguito a ruota da "Head on": tanto per mettere le cose in chiaro. Subito dopo e' il turno di "Some candy talking" che infondo io considero (erroneamente, lo so) un brano di Psychocandy: la folla scalpita, io pure. Il fumo sul palco e' una nebbia spessa e opprimente, le luci si muovono in modo tale che Crozer, King, Young e Reid (W) non sono che delle sagome scure sullo sfondo mentre Reid (J) si riesce a vedere, ma infondo non cosi' tanto.
Dio quanto sono inglesi!
L'effetto complessivo e' di un'eleganza imbarazzante e mi ritrovo a contravvenire ogni mio principio morale, cacciare dalla borsa il malefico oggetto e scattare una serie di foto in sequenza nella speranza che almeno in una si riesca a catturare l'impressione visiva: eccovi le migliori.


Seguono poi "Psycho Candy" (la canzone) e "Up too high", feedback infinito, giochi di luce allucinogeni: uno stordimento audiovisivo che associo mentalmente all'effetto di una droga potente (non che ne abbia esperienza personale, ma 'Trainspotting' l'abbiamo visto tutti). Meraviglia.
Chiudono la prima parte con "Reverence" e "Upside down" in un mare di nebbia, luci, feedback ed energia. Uscendo Reid (J) fa cenno con la mano di aspettare, come a dire "state buoni che torniamo subito".

Ri-pausa.
Mi guardo intorno e mi accorgo che gli equilibri sono cambiati: dato che a differenza della mia compagna indiana io non sono capace di dare gomitate ai prepotenti, mi sono lentamente spostata per poter continuare a vedere il palco, facendo pero' attenzione a non disturbare la visuale di quelli dietro di me. Mi ritrovero' a doverlo fare ancora durante la seconda parte del concerto, ma alla fine (a quanto pare) essere una persona per bene paghera', perche' saro' piu' avanti, piu' centrale, e con visuale perfetta.

Parte un video in bianco e nero, proiettato sul fondo del palco: pare un telegiornale d'epoca ma nel caos non riesco a decifrarne le parole. L'immagine si distorce, come se stesse bruciando (letteralmente) la pellicola su cui e' impressa.
Buio.
All'improvviso la copertina di Psychocandy viene proiettata sullo sfondo, entra Young, si siede dietro la batteria e comincia a picchiare.
Tum tu-tum sch, tum tu-tum sch, tum tu-tum sch, tum tu-tum sch.
Entrano gli strumentisti, lentamente imbracciano basso e chitarre come se stessero per andare in guerra e quelli fossero i loro fucili: la nebbia s'e' diradata, i loro volti sono serissimi. Entra Reid (J) accompagnato dalla tettona dei Gateway Drugs per la voce femminile: la guardo attentamente e la sua emozione, emanata chiaramente dal suo corpaccione che trema, mi arriva fortissima... essere li', con i J&MC, accanto a Reid (J) a cantare con lui "Just like honey"... chi non vorrebbe essere al suo posto?, chi non tremerebbe?
Finito il brano Reid (J) bacia la ragazza su una guancia e lei esce dal palco, ancora tremante.
Da qui in poi e' Psychocandy cosi' come lo conosciamo, cosi' come lo hanno pensato trent'anni fa, in quell'ordine perfetto, con quell'impatto potente, anzi dippiu': perche' se il disco emoziona e fa vibrare, la potenza di feedback del live e' un muro sonoro difficile da immaginare e/o descrivere anche per quelli che il disco lo conoscono a memoria.
Gli effetti di luci non sono piu' quelli della prima parte, non e' un mare di nebbia, i volti dei musicisti adesso si vedono, vengono proiettate immagini sul fondo... scelta forse meno elegante ma perfettamente adatta, e comunque l'effetto complessivo e' ipnotico.

Ascoltare Psychocandy dal vivo nella sua interezza stordisce e fa riflettere: dio quanto sono inglesi! (e due), ecco l'anima della vecchia Europa, con le sue sovrastrutture, la sua pesantezza burocratica, il suo prendersi cosi' drammaticamente sul serio... eccola, e' tutta qui. Positivo o negativo che sia, una musica del genere non poteva uscire dal nordamerica, assolutamente fuori discussione.
Le chitarre di Crozer e Reid (W) sono veri e propri lanciafiamme, producono suoni allucinogeni e corrosivi che lasciano senza fiato, il basso di King e' l'unica cosa che dia un minimo di struttura armonica in questo marasma, la batteria di Young e' un metronomo indispensabile.

I 38:55 minuti dell'album diventano quasi quarantacinque, tra divagazioni soniche e code di vario genere, ma sono destinati a finire troppo presto: sulle ultime note (se cosi' le si vuol chiamare) di "It's so hard" viene proiettata in triplice copia verticale sullo sfondo la scritta 'game over', bianco su nero, in caratteri da videogioco anni ottanta (ov cors). Un cenno con la mano mentre escono accompagnati dalla lunga eco di un amplificatore lasciato a fischiare.
Dopo un po' entra un roadie e con un piede schiaccia un pedale: silenzio improvviso, luci sul palco spente, luci sul pubblico accese.
Fine?, davvero?, cosi' presto?
Si'.

Sul pullman verso casa avro' ancora le orecchie che fischiano e la mente ebbra.
La notte canadese mi guarda silenziosa dal finestrino.
Buio.